mercoledì 4 settembre 2013

Una cosa alla volta


Un giorno, passeggiando fra le nubi del Luogo Santo con le mani dietro la schiena, il vecchio Simatro, angelo custode a riposo, incontrò il giovane Miro, che come al solito se ne andava in giro con passo frettoloso e lo sguardo intensamente pensieroso.
“Ciao Miro!” salutò il vecchio angelo con voce calma.
“Oh... ciao Simatro” rispose Miro senza quasi alzare la testa né accennare a fermarsi.
Simatro si fermò, si voltò a guardare l'amico e dopo un lungo istante di osservazione disse tra sé: “Mah...”. E riprese la sua passeggiata con passo tranquillo.
Il giorno dopo, più o meno alla stessa ora (che per quanto eterna era comunque un'ora precisa), il vecchio angelo faceva i suoi soliti quattro passi quotidiani.
Ed ecco a pochi metri sopraggiungere Miro. Di nuovo, cordialmente, Simatro lo salutò con voce pacata. Miro, oltrepassato l'amico, si fermò di colpo, si girò di scatto e disse asciuttamente: “Ciao. Scusa ma ho delle cose da sbrigare” E poi riprese il suo cammino. Simatro rimase un po' perplesso di fronte all'atteggiamento del giovane angelo e dopo aver borbottato “Mah...!” si diresse verso la sua dimora.
Una volta arrivato a casa ripensò a quegli strani incontri con Miro. Si chiedeva cosa gli fosse successo, era sempre stato immerso nei suoi pensieri, ma non si era mai comportato così. D'un tratto ebbe come un'illuminazione: si ricordò improvvisamente che il suo giovane amico teneva una mano nascosta all'interno della manica della veste. Il giorno dopo avrebbe indagato.
Fu così che l'indomani, sempre alla solita ora, passeggiando tranquillamente per le nuvole del Luogo Santo, vide Miro e lo chiamò, ma il giovane alla vista di Simatro cambiò improvvisamente direzione. Deciso a comprendere cosa stesse mai succedendo a quell'angelo talentuoso, Simatro andò alla ricerca del suo supervisore.
“Sono giorni e giorni che lo cerco anch'io,” gli disse quest'ultimo “dovrebbe farmi avere la sua relazione periodica, ma da quando l'ha chiamato l'Arcangelo Superiore, non riesco a rintracciarlo”
'E che c'entra ora l'Arcangelo Superiore?' si chiese Simatro dopo aver lasciato il supervisore. “Mah...!” disse sottovoce mentre si avviava verso casa.
Dopo alcuni minuti ecco Miro sbucare da un corridoio laterale; andava talmente di fretta che rischiò di buttare a terra Simatro e nell'urto tutto quanto sorreggeva con una sola mano finì per spargersi tutt'intorno.
“Oh scusami, Simatro, non avrei voluto urtarti” disse Miro raccogliendo le sue cose ”ma vado di fretta e ho mille cose da fare”
“Un momento angelo bello!” disse Simatro tenendo Miro per un braccio “Si può mai sapere che ti succede in questo periodo? E vuoi dirmi perché hai sempre quella mano nascosta nella manica?”
Miro sorpreso da quella domanda non riuscì a far altro che ammutolirsi e tenere gli occhi fissi sull'amico.
“Be'?” gli chiese Simatro ”Pensi che non me ne fossi accorto? O non te n'eri accorto nemmeno tu?”
Continuando a tenere la bocca chiusa Miro mostrò la mano: era piuttosto ingrossata e tumefatta. ”Oh per il cielo che mi accoglie!” borbottò Simatro vedendo com'era conciata quella mano. “Che é successo?”
“Hai saputo...” cominciò a dire Miro con un filo di voce “che... l'Arcangelo Superiore mi ha affidato... un incarico speciale”.
“Sì, ho saputo che ti aveva fatto chiamare, ma non per quale motivo” ribatté Simatro.
“Dovevo occuparmi di un tipo che a breve si sarebbe messo nei guai...”
Visto che il giovane angelo non continuava il suo racconto, Simatro lo incalzò: “Be'? Che è successo?”
“E' successo che...” continuò l'altro un po' incerto “ci sono riuscito solo a metà: quando mi sono reso conto che il mio protetto, distratto a fare altro mentre guidava, sarebbe andato inevitabilmente a sbattere, ho avuto l'impulso di metterci la mano... perché non si facesse troppo male... e questo” aggiunse guardandosi la mano gonfia “è il risultato!“.
“E perché lo vuoi nascondere?” chiese il vecchio amico.
“Be', perché è il segno del fallimento della mia missione” rispose Miro dopo qualche istante.
“Mio caro Miro,” disse Simatro mettendo un braccio attorno alle spalle del giovane angelo “il fatto che la tua mano sia diventata una specie di guantone appiattito e raddoppiato di misura, non significa che hai fallito, anzi! Hai fatto il tuo dovere fino in fondo! Ciò che devi ancora comprendere bene è che gli umani, per quanto attenti e presenti, sono degli esseri un po' particolari, perché finché non sbattono il naso non capiscono che nella vita per far bene le cose bisogna farne una alla volta”.



domenica 24 giugno 2012

Una storia da non credere

Non so se qualcuno mi crederà mai, ma quella che sto per raccontare è una storia vera; io stesso pensavo di sognare, ma non c’è niente di inventato, vi giuro che ne sono stato testimone in prima persona.
Non avevo ancora quindici anni, mi trovavo nella savana alla ricerca di qualche spunto per scrivere il mio ventesimo libro: dopo diciannove romanzi di carattere urbano-avventuroso, ispirati alla vita notturna degli abitanti del quartiere Kodingo nella città di Quatambe situata nella profonda foresta dell’altopiano Kaarindi, sentivo il bisogno di cambiare luogo, soggetto e protagonisti.
Dopo molti giorni di viaggio a bordo dei mezzi più disparati e altrettante notti a dormire nei posti meno indicati, decisi che era tempo di fare una sosta per riorganizzare tutte le osservazioni fatte durante i miei spostamenti, in modo da cominciare a scrivere qualcosa di più lineare e discorsivo. Così mi rifugiai in una spelonca di cui mi aveva parlato il mio amico Guandri; era un posto veramente fuori mano, tranquillo abbastanza da potermi concentrare senza distrazioni sul lungo lavoro che mi aspettava. La mattina seguente, di buon ora (da quelle parti il sole sorgeva davvero molto presto), dopo aver fatto colazione con qualche frutto che mi ero portato nell’ultimo giorno di viaggio, mi sistemai su un ramo molto comodo, con tante foglie verdi, senza gobbette o spuntoni di qualsiasi genere; non era molto in alto e lo raggiunsi con un semplice balzo, per me che ero ancora giovane fu un gioco da ragazzi. Poi verso sera ridiscesi per sgranchirmi gambe e schiena e per dormire nel piccolo rifugio che avevo sistemato il giorno prima nell’incavo del tronco di quell’albero. Questo fu lo schema con cui trascorsi quei primi giorni da scrittore in ritiro in quel luogo speciale, tranne per la sera in cui mi addormentai sul mio ramo, trasformando in sogno ciò che stavo rielaborando per il mio libro.
Fu quella notte, verso l’alba, che fui svegliato da qualcosa di insolito. Sentii in lontananza dei tamburi che battevano un ritmo molto allegro, ma che ispirava quiete e tranquillità. Non aspettai un solo momento: se lì vicino, da qualche parte stava succedendo qualcosa che poteva darmi ulteriori idee per sviluppare la mia nuova storia, dovevo approfittarne. Così, dopo aver ingoiato in fretta qualcosa da mangiare, mi lanciai di corsa nella direzione da dove sentivo provenire quel tambureggiare strano. Corsi attraverso un boschetto non molto folto, poi in un tratto di savana con dei ciuffi d’erba rinsecchita, una collinetta tonda e bassa con sopra un piccolo laghetto, dove si stavano rinfrescando alcuni animali, finché giunsi in un luogo protetto da grandi alberi. Cercai un punto da dove potessi vedere bene cosa vi stava succedendo senza essere visto o disturbare l’evento.
Appena mi affacciai al di là di uno dei grandi alberi, non potei fare a meno di spalancare bocca e occhi come non avevo mai fatto nella mia vita, tale era la sorpresa per ciò che mi si parò di fronte: c’era da un lato un numeroso gruppo di scimpanzé e di gorilla che, con dei bastoni ben lavorati, picchiavano con grande maestria su tronchi di varia dimensione; dall’altra parte un altro folto gruppo di scimmie di vario genere che emettevano dei suoni più o meno gutturali in piena sintonia con la musica degli insoliti percussionisti; e in mezzo a loro c’erano almeno venti elefanti, tutti alzati sulle loro grosse zampe posteriori, con un gonnellino fatto di lunghe foglie gialle alternate a dei ramoscelli pieni di foglioline d’un verde scintillante, le grandi orecchie triangolari adornate con delle ghirlande di fiori di tutti i colori, e insieme ballavano con una grazia e una leggerezza che poche volte mi era capitato di vedere.
Il ballo durò ancora qualche minuto; poi, quando musica e danze si fermarono, regnò un silenzio pieno di pace, tutti rimasero fermi come fossero delle statue di legno, tenendo l’ultima posizione di danza.
Alla vista di quello spettacolo, non riuscii a trattenermi: dopo alcuni istanti col fiato sospeso per l’ammirazione iniziai a battere le mani più forte che potei per applaudire quei grandi artisti e ad urlare a squarciagola ‘bravi, bravissimi!!’. Tutti puntarono i loro sguardi stupiti verso di me e poi venni invitato a raggiungere il centro del cerchio. E mentre mi avvicinavo dissi che era stato fantastico, che finalmente avevo trovato un’idea grandiosa per il mio libro, che sarebbe diventato famoso in tutto il mondo e anche loro sarebbero diventati famosi e la loro musica e la loro danza avrebbe spopolato, tutti, tutti, tutti li avrebbero applauditi per quello spettacolo... Improvvisamente mi ritrovai con la bocca chiusa a forza dalla proboscide di uno degli elefanti ballerini che poi mi sollevò da terra con molta delicatezza: deglutii dallo spavento! Vedendo però che la bocca di quest’ultimo tirava al sorriso e che i suoi occhi esprimevano una dolcezza infinita, mi rilassai un po’ e cercai di sorridere anch’io. L’elefante mi rimise a terra, lasciò la presa e poi mi disse con voce molto calda e profonda:
“E’ la prima volta che abbiamo uno spettatore alle nostre... esibizioni”
Stavo per dire che ce ne sarebbero stati degli altri, tantissimi, di tutti i tipi, da ogni dove, ma l’elefante di nuovo mi tappò la bocca e disse:
“E dovrà essere anche l’ultima!”
Nonostante la voce fosse molto suadente e calma sentii un brivido di terrore che percorse tutto il mio corpo, dalle punte dei capelli alle dita dei piedi. Deglutii!
“Ed ora che ci siamo chiariti” disse sempre con voce calma il mio interlocutore “passiamo alle presentazioni. Io sono Sabenda, la matriarca del folto gruppo di animali qui riunito”
Era un’elefantessa! Di nuovo non potei fare a meno di spalancare bocca e occhi meravigliato.
“Piacere” dissi “io sono Papuri”
“E che ci fa un ragazzo così giovane in questa zona sperduta?” chiese Sabenda.
“Sono uno scrittore” risposi “e volevo trovare nuova ambientazione e nuovi personaggi per il mio nuovo libro”
“E quindi” mi disse Sabenda con sguardo fra il rimprovero e la presa in giro “vorresti inserire nella tua storia quello che hai visto questa notte”
Sorrisi timidamente con sguardo implorante.
“Mh!” fece lei. E poi continuò: “Potrebbe essere un’idea... ma mai, ripeto mai dovrai scrivere dove e quando questo sia successo, ne va della sacralità di questo nostro incontro e della nostra pace che con molta fatica ci siamo costruiti”
“D’accordo!” dissi entusiasta “A pensarci bene, voi credereste mai al racconto di un ragazzo che non sa far altro che parlare, parlare e parlare e scrivere storie avventurose un po’ complicate?”
Tutti si misero a ridere.
“Allora” disse Sabenda “in onore del nostro privilegiato e unico spettatore, ripeteremo la nostra danza dall’inizio”
E così ricominciò la musica, i canti e le danze.
Io mi appoggiai all’albero da cui avevo visto per la prima volta quello spettacolo e mi godetti la visione.
Dopo che tutto finì, non so come, né perché, mi ritrovai a svegliarmi sul ramo dove stavo scrivendo la mia storia, una storia che mi auguravo fosse insolita e piena di meraviglia. Mi sentivo indolenzito. Avevo sognato? No, non avevo dubbi al riguardo, ciò a cui avevo assistito era reale. E voi dovete stare certi che quanto vi ho raccontato non è una storia inventata, ma la pura e semplice verità.

Un cerchio nel cielo

Questa non è la storia di una nube cupa e minacciosa che incombe su persone e personaggi poco fortunati o che accompagna famiglie a dir poco strane e fuori dagli schemi, mentre il resto del cielo è limpido e il sole illumina il mondo circostante.
No.
Questa è proprio una storia completamente diversa.
E’ la storia di un omino piccolo piccolo, che portava avanti la sua vita quotidiana con assoluta tranquillità e pacatezza. Lui diceva di vivere una vita assolutamente normale, ma appena saprete che cosa gli successe in un giorno come tanti, sono certo che non potrete fare a meno di rimanere a bocca aperta e con gli occhi spalancati dalla meraviglia.
Tutti in paese conoscevano... Parlottino (già il nome...), chi di più, chi di meno, chi solo di vista, chi lo considerava un amico.
Il primo che si accorse di ciò che successe a Parlottino, fu uno dei saggi del paese, soprannominato il Robusto, a causa della sua prestanza fisica e in particolare del suo peso. Un giorno che era seduto su una panchina del giardino che confinava con casa sua, a godersi quei pochi raggi di sole che filtravano da un cielo pieno di nuvole come non si era visto da molti mesi, vide giungere a passi corti e svelti l’omino vestito molto elegantemente, con tanto di cappello e bastone da passeggio. Man mano che Parlottino avanzava sul vialetto del parco, il Robusto si rendeva conto che il piccoletto - così lo chiamava affettuosamente - stava canticchiando a bocca chiusa un allegro motivetto che lui aveva imparato quando andava alla scuola elementare. ‘Non ci posso credere!’ si disse il Robusto ‘E come fa quel nanetto a conoscere quella canzone?’
Di un’altra cosa si accorse il saggio, mentre guardava Parlottino avvicinarsi. Gli si aprì la bocca di botto e gli occhi si spalancarono a più non posso, e dopo un attimo sussurrò tra sè e sé: “Se lo racconto agli amici dell’osteria non mi crederanno mai!”. Voleva chiedere all’ometto che gli passò davanti che cosa stesse succedendo, ma tale fu lo stupore che non riuscì nemmeno a dire ‘che’.
Un’altra persona incontrò quel piccolo uomo in quello stesso giorno, era la giovane sposa del sindaco del paese; la chiamavano la Normanna perché, oltre ad essere una donna alta e dall’aspetto regale, aveva i capelli biondo platino, proprio come i popoli che vivono vicino ai mari del nord. Stava amabilmente chiacchierando con alcune amiche quando vide in lontananza apparire il nostro piccoletto, vestito di tutto punto e con un sorriso tremendamente simpatico; il suo passo buffamente saltellante la metteva di buon umore più di quanto non lo fosse già di suo. Ogni tanto, mentre ascoltava un’amica o l’altra, lo guardava avvicinarsi. Questo fino a che non riuscì più a staccare lo sguardo da Parlottino; senza riuscire a dire una sola parola alzò il braccio e puntò l’indice verso di lui e le amiche che erano con lei non poterono far altro che girarsi per guardare ciò che la Normanna stava indicando. Tutte seguirono con sguardo incredulo quel nanetto che passava di fronte a loro; e lui con molta galanteria alzò il cappello in segno di saluto.
Prima di svelare cosa stava succedendo a Parlottino, vi devo raccontare un altro incontro che fece il piccolo uomo in quel giorno tanto particolare, e cioè con il sottoscritto. A quel tempo io mi occupavo delle notizie riguardanti la vita del paese, in pratica curavo un piccolo giornale locale che veniva stampato una volta alla settimana. Venni incaricato dal consiglio comunale di svolgere questo compito per cercare di risolvere un problema che, per una comunità così piccola come quella in cui vivevo, aveva raggiunto dimensioni assolutamente inaccettabili: i pettegolezzi. Era talmente diffuso questo problema che ormai ognuno non raccontava più i fatti propri, ma quello che sentiva dire di sé dagli altri cittadini.
Quel giorno, appena finito di lavorare, decisi che mi meritavo una bella passeggiata rilassante lungo il torrente che scorreva a sud del mio paesello. Camminavo senza guardare avanti, con passo lento e regolare, finché sentii dietro di me i passi veloci e ben scanditi di qualcuno che si stava avvicinando. ‘Che fretta!’ mi dissi prima di vedere che la persona che mi stava raggiungendo era Parlottino. “Buongiorno!” mi disse gaiamente l’omino levandosi il cappello. “Buongiorno!” risposi io chinandomi in avanti. “Bella giornata oggi, eh?” fece lui. “Be’, non male, direi” dissi io. Facemmo un po’ di strada insieme, io col mio passo rotondo e regolare, lui col suo passo svelto e saltellante, parlando del più e del meno o commentando i fatti riportati sull’ultima edizione del giornale del paese. Finché camminammo fianco a fianco tutto pareva normale, se non che sembrava che il sole riuscisse finalmente a filtrare un po’ di più fra le nubi.
Ad un certo punto l’ometto mi salutò e accelerò il suo agile passo; mentre lo guardavo allontanarsi notai che il sole sopra di me era di nuovo scomparso, e invece era luminoso e brillante sopra la testa di Parlottino. Stupefatto di quel fenomeno, mi fermai, alzai gli occhi verso l’alto e vidi fra le grigie nubi un cerchio di cielo azzurro, da cui filtrava la luce del sole che illuminava il piccolo uomo e si spostava con lui, seguendolo ovunque andasse: mi sembrò il faro puntato sul protagonista di un grande spettacolo.
Per i giorni a venire non si parlò d’altro in paese; e il bello è che da quel giorno in poi nessuno seppe dire se si fosse trattato di un’allucinazione generale o se fosse stato l’ennesimo pettegolezzo inventato da chissà chi, perché le persone potessero avere qualcosa di cui discutere quando si incontravano per la strada. Se così fosse stato io avrei certamente perso il mio incarico di narratore della realtà.

Due acque

Un torrentello di campagna, né troppo largo né troppo stretto, scorreva placidamente fra due filari di platani. Sembrava una giornata come tante, il sole splendeva caldo nel cielo, l’acqua era al solito un po’ verdina, le piante sommerse si lasciavano ondeggiare al fluire della corrente, e qua e là risplendevano piccoli diamanti di luce solare. Non certo come il giorno prima, quando piovve a più non posso e il torrentello si sentiva un po’ gonfio.
Quel mattino tutto sembrava tranquillo, quando ad un certo punto il torrentello si sentì stranito, come se fosse stato diviso in due.
“Che strana sensazione...” si disse il torrentello “Che sarà mai? Non mi starò buscando qualche malanno per la pioggia che è venuta ieri?”
Mentre faceva questi pensieri, si fermò sulla riva un merlo che voleva dissetarsi, ma lanciata un’occhiata al torrentello, fischiettò esterrefatto: “Che razza di acqua è mai questa?”
Il torrentello sentendo quelle parole chiese al merlo: “Come sarebbe a dire che razza di acqua è?” Ma quello aveva già preso il volo alla ricerca di un altro luogo dove potersi dissetare.
Si fermò un cane vagabondo. Stava già pregustando ad occhi chiusi la bevuta che si sarebbe fatto, ma appena adocchiò l’acqua disse con voce grossa: “Oh, grande boby, mai vista un’acqua del genere!” Si stava già allontanando, quando il torrentello gli gridò: “Ehi, come ti permetti? Che ha la mia acqua che non va?”
“Dovresti farti curare!” disse il cane girando la testa all’indietro.
“Allora son proprio malato!” si disse il torrentello piagnucolando.
Dopo qualche tempo vide passare di là una mucca che camminava a passo lento.
“Signora Mucca!” chiamò il torrentello.
La mucca si guardò intorno e non vedendo nessuno urlò spaventata: “Mmma chi ha mmai detto qualcosa?!”
“Io” cercò di rassicurarla il torrentello “Sono io signora Mucca, il torrente al suo fianco”
La mucca lo guardò incredula e dopo un attimo di meraviglia muggì: “Mmma ti pare il mmodo di mmolestare una povera mmmucca!”
“Mi scusi, non volevo spaventarla” disse gentilmente il torrente “Vorrei solo chiederle se nota niente di strano in me”
La mucca avvicinò il muso verso l’acqua e dopo aver guardato bene disse: “Ora che me lo fai notare, c’è sì qualcosa di strano: sei diviso a metà e neanche troppo bene”
“Cheee... significa?” si lamentò il torrentello “Sooono fatto a peeezzi, forse?”
“A pezzi non direi” disse la mucca “mma di due colori lo sei!”
“Oh, per tutti i flutti, adesso svengo!” sussurrò sgomento il torrente. Poi subito chiese alla mucca: “Ma di che colori sono?”
“Sei un po’ verde e un po’ mmarrone” rispose la mucca divertita.
“E pensi sia grave?” domandò ancora il torrente.
“Be’, io la tua acqua in questo punto non la berrei, forse un po’ più in là” disse la mucca un po’ più seria.
“Perché un po’ più in là?” il torrentello non capiva.
“Perché sei diviso, sì, ma solo qui, dopo quella grande curva” spiegò la mucca.
“Oh, ma allora... niente di grave!” disse sollevato il torrentello.
“Pare quasi un’irritazione locale!” disse la mucca.
“No, è che ieri tutta quella pioggia... deve aver smosso un poco il monte” azzardò il torrentello.
“Mmma che vuoi? Tutti prima o poi ci sentiamo divisi in due. Guarda mmme” disse la mucca “ho due corna, due zammpe davanti, due dietro, due occhi, due orecchie...”
“Eh già, vedo” disse il torrentello “Per me è davvero la prima volta, non sono abituato ad avere due acque”
“Mmmh! Ti comprendo, sai?” disse benigna la mucca.
“Perché? Anche tu ti sei divisa da poco?” chiese il torrente meravigliato.
“No. Più che altro è la mmia coda” rispose la mucca.
“Ah! E perché mmai?” chiese con trasporto il torrente.
“Anche lei non è divisa, è una sola” disse la mucca.
“Be’, cosa c’è di strano? Anch’io lo sono di solito!” fece notare il torrente.
“Sì, mmma la mia coda” disse la mucca un po’ affranta “non vorrebbe stare sola, cerca sempre di dividersi: è per questo che tutto il santo giorno va un po’ di qua e poi va di là, torna di qua e ancora di là, prima di qua, dopo di là...”
“Eeeeh!” gorgogliò il torrentello “Io ho due acque e non lo sapevo, tu hai una coda che vorrebbe una gemella... E’ davvero tanto strano questo mondo dove scorro!”

Un cielo omogeneo

Il cielo stamattina è d’un colore omogeneo, tutto lo stesso colore fino a perdita d’occhio. Succede anche in inverno nelle giornate serene, quando l’azzurro del cielo è cristallino e permette di vedere fin dove è possibile agli occhi. Stamattina invece il colore è unico, ben distribuito, ma tende ad un grigio azzurrino. Non è che mi metta tristezza, è già tanto che non piova e possa farmi una passeggiata in questo enorme e bellissimo parco senza la preoccupazione di bagnarmi. E’ la prima volta però che vedo il cielo coperto di nubi senza la minima increspatura o una diversa intensità di colore qua e là. Comunque non essendoci foschia, il mondo circostante è ben definito, le cose si distinguono bene; certo, non hanno la luce dei giorni pieni di sole, ma vedere che gli alberi, i fiori, le panchine, i giochi, le persone, i cani, i cespugli, le biciclette, hanno dei tratti definiti... mi sembra di vedere il disegno di un bambino.
E’ già estate, ma sembra che la stagione stenti a decollare, la brezza che soffia in modo quasi costante è tiepida e porta con sé l’odore della pioggia caduta da qualche parte, chissà dove. Di vita nel parco ce n’è, se non quella umana, sicuramente quella degli insetti: facendo il vialetto qualche minuto fa mi sono ritrovato in una nuvola di moscerini di chissà quale specie, che se non ne ho fatto banchetto è stato solo perché avevo la bocca ben chiusa.
C’è calma.
Sarà calma dopo la tempesta o quella che fa presagire una bufera?
Chissà!
Sì, è una calma un po’ piatta, sarà questa luce un po’ spenta: non fosse perché sono le dieci e mezza di un giorno di fine giugno, si potrebbe benissimo dire che siamo ai primi di ottobre. Forse anche il tempo ha bisogno di fare una pausa, di non essere sole pieno o nemmeno pioggia battente, ma di stare lì a metà, per decidere cosa sia meglio per quella giornata o in vista della successiva, per quello che deve succedere ad ognuno...
Intanto me ne sto qui ancora un po’, a leggere il libro che mi sono portato, a sentire i bambini che giocano e strillano, a guardare le formiche che mi salgono sulla mano, ad osservare un moscerino atterrato malamente sulle pagine del mio libro, a godermi questo giorno.

Pusillanime!

“Sei un maledetto pusillanime!!” gridò il balivo all’amico bardo seduto nella taverna di fronte a lui “Dopo tutti questi anni hai deciso che donna Marta non sia più degna di far parte della tua compagnia, eh?”
Il bardo lo guardava di sottecchi senza aprire bocca.
“E poi? Per che cosa?” continuò il balivo “Per un’attricetta squinternata che probabilmente ti ha fatto girare la testa, ma che di fatto non sa nemmeno cosa sia il palcoscenico!”
“E’ necessario che le compagnie d’arte si rinnovino” disse il bardo remissivo.
“Certo!” urlò il balivo alzandosi in piedi “E tu chi fai fuori? Colei, mia moglie tra l’altro, che ha fondato con te la compagnia. Anzi, non fosse stato per le sue insistenze quella compagnia non sarebbe neppure nata!”
“Lo so, lo so” disse il bardo “Ora sei fuori di te, ma più in là capirai!”
Il balivo lo fulminò con lo sguardo. Si chinò verso l’amico, si mise con la faccia a pochi millimetri dalla sua e poi disse con voce minacciosa: “Non sono io che devo capire, è Marta!”
“Ma... comunque” aggiunse il bardo “Marta può restare nella compagnia, io non ho motivo alcuno per allontanarla”
“E pensi che lei accetterebbe? Sei proprio un pusillanime, sei un senza midollo, un bamboccio!” disse il balivo con uno sguardo di commiserazione “Come puoi pensare che lei che è stata la musa delle tue opere, l’interprete più applaudita di tutti i dintorni, il secondo nome della compagnia accanto al tuo, e questo solo per la tua vanagloria, possa cedere il passo con non chalance e mettersi in un angolo a guardare morire la compagnia alla quale ha votato totalmente la propria vita di artista? Sai come si chiama questo, dopo quindici anni di intesa? Tradimento! E chi tradisce rivela finalmente la sua vera natura: è un falso, è un racconta frottole! E più di tutti le frottole le racconti a te stesso! Perderai il rispetto di chi ha creduto in te in questi anni e di tutti quelli che sapranno di quale infimo livello sei!”
E detto questo uscì dalla taverna.
Il silenzio che si era creato alle invettive del balivo, fu sostituito dal brusio dei commenti sussurrati dai presenti che lanciavano sguardi intolleranti verso quell’artistucolo da quattro soldi che si fregiava del titolo di bardo.
“E’ una reazione a caldo” disse quest’ultimo a chi era seduto ai tavoli vicini “Sono sicuro che sapranno comprendere la situazione e ci rideranno sopra”
Detto questo anche lui se ne andò.
Appena uscito dalla taverna pensò fosse una buona idea andare a trovare Marta.
“Ah, sei tu” disse Marta freddamente appena aprì la porta di casa “Entra”
“Marta, ci tenevo a dirti...” disse il bardo appena entrato, ma lei lo interruppe: “Che ti dispiace? Ma falla finita!”
“No, volevo dirti che puoi rimanere nella compagnia”
“A far che? La tappabuchi suggeritrice di quella là?”
“Ti garantisco che Cosetta ha tutte le qualità per diventare una grande artista... certo lei vorrebbe che tu non ci fossi...”
“E tu?” chiese Marta con le mani ai fianchi.
“Io... io non ho motivo di mandarti via...” disse querulo il bardo.
“Sento che stai per dirmi un ma” disse Marta guardandolo di sbieco.
“Ma... non voglio nemmeno rinunciare a Cosetta”
“Pusillanime!” sibilò Marta mentre si girava verso la finestra. Poi aggiunse: “Se credi che accetterò le tue meschinità e inutili proposte di mediazione, sei proprio... una nullità! Non sai farti valere, sei una mollica di pane che appena trova delle mani più morbide si lascia trasformare in una sfoglia trasparente”
Dopo qualche attimo di silenzio Marta si girò verso il bardo e gli disse con voce ferma e calma: “Senti, non abbiamo più niente da dirci, tieniti la tua pivella, spero che possa almeno darti delle soddisfazioni”
“Mi dispiace” sussurrò il bardo avvicinandosi alla porta.
“Ma non ci credi neanche tu!” ribatté Marta sempre calma “Ho creduto in te per quindici anni e pensavo fosse lo stesso per te; pensavo fossi un uomo e invece sei un vigliacco ipocrita e opportunista. Chissà, forse ho sbagliato io a giudicarti in tutti questi anni, tutto potevo pensare e intuire tranne che tu fossi... un pusillanime, anzi meno di un pusillanime!”
Il bardo stava aprendo la porta quando Marta aggiunse: “Mi auguro che la tua biondina non si stanchi troppo presto di te, perché se dovessi venire a bussare a questa porta potresti capire molto in fretta e concretamente cosa significhi essere un senza midolla!”

Ricordi Ladylay?

“Ti ricordi di Ladylay?” chiese Axelo.
“Ladylay...? No” disse Bound “Dovrei?”
“Be’, difficile non ricordarsela.” sottolineò Axelo.
“Non così difficile, visto che io non me la ricordo” sostenne Bound “Chi è?”.
“Ma sì: alta, mora, con un fisico portentoso, simpatica, divertente...”
“Una racchia!” concluse Bound.
“Macché racchia!” rispose Axelo “Io... mi sono un po’ invaghito di lei!”
“Be’, questo non vuol dire niente, tu ti innamori di ogni fanciulla che si mostra appena appena gentile con te” disse ironico Bound.
“Ma cosa dici?” disse Axelo risentito “Di cosa parli? Non sai nemmeno di cosa parli!”
“Va be’, lasciamo perdere!” mormorò Bound. “Allora... questa Ladylay? Mi spieghi chi è?”.
“Mah... non saprei che altro dirti di lei” rispose Axelo.
“Ah proprio un tipo da ricordarsela!” affermò Bound “Quante donne ci sono al mondo alte, more, con un certo fisico e divertenti?”
“Come Ladylay, poche!” disse Axelo con tono convinto.
“Certo!...” disse Bound sostenuto.
“Comunque” riprese Axelo “mi ha chiamato.”
“Mh!” fece Bound.
“L’ultima volta che l’ho vista è stato cinque anni fa” continuò Axelo.
“Ah...”
“E... mi ha chiesto...”
“Sì...?”
“...se ricordavo che fine avesse fatto la sua borsa amaranto...”
“Uhelà! Grande interesse per te, eh?” disse Bound.
“Be’, d’altronde dopo cinque anni...” accennò Axelo.
“E la prima cosa che ti chiede riguarda la sua borsa?” chiese Bound “Questa me la devi spiegare perché non l’ho capita.”
“In effetti... non è la prima cosa che mi ha chiesto...” disse Axelo misterioso.
“Ah no? E che cosa ti ha chiesto di così interessante?” Bound cominciò ad incuriosirsi.
“Mi ha chiesto di te” disse asciutto Axelo.
“Ah!” disse Bound altrettanto asciutto. “E... cosa ti ha chiesto?”
“Se ti ricordavi di lei.” rispose Axelo.
“Bel problema! Io proprio non mi ricordo di lei!”
“E a quanto pare” aggiunse Axelo “nemmeno del prestito che ti ha fatto cinque anni fa”.
“Un prestito?” chiese pensieroso Bound.
“Più che altro...” disse Axelo non riuscendo a trattenere un sorriso ironico “non l’hai pagata.”
“Pagata? Per cosa?!”
“L’integerrimo Bound, l’uomo tutto d’un pezzo... Ricordi il mio addio al celibato?” chiese Axelo.
“Sì, vagamente, son passati... cinque anni!”. concluse sussurrando Bound e sbiancando in volto.
“Ah, vedi che cominci a ricordare?” fece Axelo, agitando scherzosamente il dito indice in segno di rimprovero.
“Pensavo di aver fatto un sogno...” iniziò a dire Bound.
“...talmente coinvolgente da sembrare vero!” completò Axelo “Risposta esatta! Eri talmente ubriaco da non ricordare assolutamente nulla!” e scoppiò in una gran risata.
“Ah, ah, ah...” scandì Bound scuro in faccia; e se ne andò senza aggiungere altro.
“Ehi Bound” gli gridò Axelo “una domanda: è più facile che un sogno diventi realtà o è la realtà ad essere soltanto un sogno?”