domenica 24 giugno 2012

Una storia da non credere

Non so se qualcuno mi crederà mai, ma quella che sto per raccontare è una storia vera; io stesso pensavo di sognare, ma non c’è niente di inventato, vi giuro che ne sono stato testimone in prima persona.
Non avevo ancora quindici anni, mi trovavo nella savana alla ricerca di qualche spunto per scrivere il mio ventesimo libro: dopo diciannove romanzi di carattere urbano-avventuroso, ispirati alla vita notturna degli abitanti del quartiere Kodingo nella città di Quatambe situata nella profonda foresta dell’altopiano Kaarindi, sentivo il bisogno di cambiare luogo, soggetto e protagonisti.
Dopo molti giorni di viaggio a bordo dei mezzi più disparati e altrettante notti a dormire nei posti meno indicati, decisi che era tempo di fare una sosta per riorganizzare tutte le osservazioni fatte durante i miei spostamenti, in modo da cominciare a scrivere qualcosa di più lineare e discorsivo. Così mi rifugiai in una spelonca di cui mi aveva parlato il mio amico Guandri; era un posto veramente fuori mano, tranquillo abbastanza da potermi concentrare senza distrazioni sul lungo lavoro che mi aspettava. La mattina seguente, di buon ora (da quelle parti il sole sorgeva davvero molto presto), dopo aver fatto colazione con qualche frutto che mi ero portato nell’ultimo giorno di viaggio, mi sistemai su un ramo molto comodo, con tante foglie verdi, senza gobbette o spuntoni di qualsiasi genere; non era molto in alto e lo raggiunsi con un semplice balzo, per me che ero ancora giovane fu un gioco da ragazzi. Poi verso sera ridiscesi per sgranchirmi gambe e schiena e per dormire nel piccolo rifugio che avevo sistemato il giorno prima nell’incavo del tronco di quell’albero. Questo fu lo schema con cui trascorsi quei primi giorni da scrittore in ritiro in quel luogo speciale, tranne per la sera in cui mi addormentai sul mio ramo, trasformando in sogno ciò che stavo rielaborando per il mio libro.
Fu quella notte, verso l’alba, che fui svegliato da qualcosa di insolito. Sentii in lontananza dei tamburi che battevano un ritmo molto allegro, ma che ispirava quiete e tranquillità. Non aspettai un solo momento: se lì vicino, da qualche parte stava succedendo qualcosa che poteva darmi ulteriori idee per sviluppare la mia nuova storia, dovevo approfittarne. Così, dopo aver ingoiato in fretta qualcosa da mangiare, mi lanciai di corsa nella direzione da dove sentivo provenire quel tambureggiare strano. Corsi attraverso un boschetto non molto folto, poi in un tratto di savana con dei ciuffi d’erba rinsecchita, una collinetta tonda e bassa con sopra un piccolo laghetto, dove si stavano rinfrescando alcuni animali, finché giunsi in un luogo protetto da grandi alberi. Cercai un punto da dove potessi vedere bene cosa vi stava succedendo senza essere visto o disturbare l’evento.
Appena mi affacciai al di là di uno dei grandi alberi, non potei fare a meno di spalancare bocca e occhi come non avevo mai fatto nella mia vita, tale era la sorpresa per ciò che mi si parò di fronte: c’era da un lato un numeroso gruppo di scimpanzé e di gorilla che, con dei bastoni ben lavorati, picchiavano con grande maestria su tronchi di varia dimensione; dall’altra parte un altro folto gruppo di scimmie di vario genere che emettevano dei suoni più o meno gutturali in piena sintonia con la musica degli insoliti percussionisti; e in mezzo a loro c’erano almeno venti elefanti, tutti alzati sulle loro grosse zampe posteriori, con un gonnellino fatto di lunghe foglie gialle alternate a dei ramoscelli pieni di foglioline d’un verde scintillante, le grandi orecchie triangolari adornate con delle ghirlande di fiori di tutti i colori, e insieme ballavano con una grazia e una leggerezza che poche volte mi era capitato di vedere.
Il ballo durò ancora qualche minuto; poi, quando musica e danze si fermarono, regnò un silenzio pieno di pace, tutti rimasero fermi come fossero delle statue di legno, tenendo l’ultima posizione di danza.
Alla vista di quello spettacolo, non riuscii a trattenermi: dopo alcuni istanti col fiato sospeso per l’ammirazione iniziai a battere le mani più forte che potei per applaudire quei grandi artisti e ad urlare a squarciagola ‘bravi, bravissimi!!’. Tutti puntarono i loro sguardi stupiti verso di me e poi venni invitato a raggiungere il centro del cerchio. E mentre mi avvicinavo dissi che era stato fantastico, che finalmente avevo trovato un’idea grandiosa per il mio libro, che sarebbe diventato famoso in tutto il mondo e anche loro sarebbero diventati famosi e la loro musica e la loro danza avrebbe spopolato, tutti, tutti, tutti li avrebbero applauditi per quello spettacolo... Improvvisamente mi ritrovai con la bocca chiusa a forza dalla proboscide di uno degli elefanti ballerini che poi mi sollevò da terra con molta delicatezza: deglutii dallo spavento! Vedendo però che la bocca di quest’ultimo tirava al sorriso e che i suoi occhi esprimevano una dolcezza infinita, mi rilassai un po’ e cercai di sorridere anch’io. L’elefante mi rimise a terra, lasciò la presa e poi mi disse con voce molto calda e profonda:
“E’ la prima volta che abbiamo uno spettatore alle nostre... esibizioni”
Stavo per dire che ce ne sarebbero stati degli altri, tantissimi, di tutti i tipi, da ogni dove, ma l’elefante di nuovo mi tappò la bocca e disse:
“E dovrà essere anche l’ultima!”
Nonostante la voce fosse molto suadente e calma sentii un brivido di terrore che percorse tutto il mio corpo, dalle punte dei capelli alle dita dei piedi. Deglutii!
“Ed ora che ci siamo chiariti” disse sempre con voce calma il mio interlocutore “passiamo alle presentazioni. Io sono Sabenda, la matriarca del folto gruppo di animali qui riunito”
Era un’elefantessa! Di nuovo non potei fare a meno di spalancare bocca e occhi meravigliato.
“Piacere” dissi “io sono Papuri”
“E che ci fa un ragazzo così giovane in questa zona sperduta?” chiese Sabenda.
“Sono uno scrittore” risposi “e volevo trovare nuova ambientazione e nuovi personaggi per il mio nuovo libro”
“E quindi” mi disse Sabenda con sguardo fra il rimprovero e la presa in giro “vorresti inserire nella tua storia quello che hai visto questa notte”
Sorrisi timidamente con sguardo implorante.
“Mh!” fece lei. E poi continuò: “Potrebbe essere un’idea... ma mai, ripeto mai dovrai scrivere dove e quando questo sia successo, ne va della sacralità di questo nostro incontro e della nostra pace che con molta fatica ci siamo costruiti”
“D’accordo!” dissi entusiasta “A pensarci bene, voi credereste mai al racconto di un ragazzo che non sa far altro che parlare, parlare e parlare e scrivere storie avventurose un po’ complicate?”
Tutti si misero a ridere.
“Allora” disse Sabenda “in onore del nostro privilegiato e unico spettatore, ripeteremo la nostra danza dall’inizio”
E così ricominciò la musica, i canti e le danze.
Io mi appoggiai all’albero da cui avevo visto per la prima volta quello spettacolo e mi godetti la visione.
Dopo che tutto finì, non so come, né perché, mi ritrovai a svegliarmi sul ramo dove stavo scrivendo la mia storia, una storia che mi auguravo fosse insolita e piena di meraviglia. Mi sentivo indolenzito. Avevo sognato? No, non avevo dubbi al riguardo, ciò a cui avevo assistito era reale. E voi dovete stare certi che quanto vi ho raccontato non è una storia inventata, ma la pura e semplice verità.

Un cerchio nel cielo

Questa non è la storia di una nube cupa e minacciosa che incombe su persone e personaggi poco fortunati o che accompagna famiglie a dir poco strane e fuori dagli schemi, mentre il resto del cielo è limpido e il sole illumina il mondo circostante.
No.
Questa è proprio una storia completamente diversa.
E’ la storia di un omino piccolo piccolo, che portava avanti la sua vita quotidiana con assoluta tranquillità e pacatezza. Lui diceva di vivere una vita assolutamente normale, ma appena saprete che cosa gli successe in un giorno come tanti, sono certo che non potrete fare a meno di rimanere a bocca aperta e con gli occhi spalancati dalla meraviglia.
Tutti in paese conoscevano... Parlottino (già il nome...), chi di più, chi di meno, chi solo di vista, chi lo considerava un amico.
Il primo che si accorse di ciò che successe a Parlottino, fu uno dei saggi del paese, soprannominato il Robusto, a causa della sua prestanza fisica e in particolare del suo peso. Un giorno che era seduto su una panchina del giardino che confinava con casa sua, a godersi quei pochi raggi di sole che filtravano da un cielo pieno di nuvole come non si era visto da molti mesi, vide giungere a passi corti e svelti l’omino vestito molto elegantemente, con tanto di cappello e bastone da passeggio. Man mano che Parlottino avanzava sul vialetto del parco, il Robusto si rendeva conto che il piccoletto - così lo chiamava affettuosamente - stava canticchiando a bocca chiusa un allegro motivetto che lui aveva imparato quando andava alla scuola elementare. ‘Non ci posso credere!’ si disse il Robusto ‘E come fa quel nanetto a conoscere quella canzone?’
Di un’altra cosa si accorse il saggio, mentre guardava Parlottino avvicinarsi. Gli si aprì la bocca di botto e gli occhi si spalancarono a più non posso, e dopo un attimo sussurrò tra sè e sé: “Se lo racconto agli amici dell’osteria non mi crederanno mai!”. Voleva chiedere all’ometto che gli passò davanti che cosa stesse succedendo, ma tale fu lo stupore che non riuscì nemmeno a dire ‘che’.
Un’altra persona incontrò quel piccolo uomo in quello stesso giorno, era la giovane sposa del sindaco del paese; la chiamavano la Normanna perché, oltre ad essere una donna alta e dall’aspetto regale, aveva i capelli biondo platino, proprio come i popoli che vivono vicino ai mari del nord. Stava amabilmente chiacchierando con alcune amiche quando vide in lontananza apparire il nostro piccoletto, vestito di tutto punto e con un sorriso tremendamente simpatico; il suo passo buffamente saltellante la metteva di buon umore più di quanto non lo fosse già di suo. Ogni tanto, mentre ascoltava un’amica o l’altra, lo guardava avvicinarsi. Questo fino a che non riuscì più a staccare lo sguardo da Parlottino; senza riuscire a dire una sola parola alzò il braccio e puntò l’indice verso di lui e le amiche che erano con lei non poterono far altro che girarsi per guardare ciò che la Normanna stava indicando. Tutte seguirono con sguardo incredulo quel nanetto che passava di fronte a loro; e lui con molta galanteria alzò il cappello in segno di saluto.
Prima di svelare cosa stava succedendo a Parlottino, vi devo raccontare un altro incontro che fece il piccolo uomo in quel giorno tanto particolare, e cioè con il sottoscritto. A quel tempo io mi occupavo delle notizie riguardanti la vita del paese, in pratica curavo un piccolo giornale locale che veniva stampato una volta alla settimana. Venni incaricato dal consiglio comunale di svolgere questo compito per cercare di risolvere un problema che, per una comunità così piccola come quella in cui vivevo, aveva raggiunto dimensioni assolutamente inaccettabili: i pettegolezzi. Era talmente diffuso questo problema che ormai ognuno non raccontava più i fatti propri, ma quello che sentiva dire di sé dagli altri cittadini.
Quel giorno, appena finito di lavorare, decisi che mi meritavo una bella passeggiata rilassante lungo il torrente che scorreva a sud del mio paesello. Camminavo senza guardare avanti, con passo lento e regolare, finché sentii dietro di me i passi veloci e ben scanditi di qualcuno che si stava avvicinando. ‘Che fretta!’ mi dissi prima di vedere che la persona che mi stava raggiungendo era Parlottino. “Buongiorno!” mi disse gaiamente l’omino levandosi il cappello. “Buongiorno!” risposi io chinandomi in avanti. “Bella giornata oggi, eh?” fece lui. “Be’, non male, direi” dissi io. Facemmo un po’ di strada insieme, io col mio passo rotondo e regolare, lui col suo passo svelto e saltellante, parlando del più e del meno o commentando i fatti riportati sull’ultima edizione del giornale del paese. Finché camminammo fianco a fianco tutto pareva normale, se non che sembrava che il sole riuscisse finalmente a filtrare un po’ di più fra le nubi.
Ad un certo punto l’ometto mi salutò e accelerò il suo agile passo; mentre lo guardavo allontanarsi notai che il sole sopra di me era di nuovo scomparso, e invece era luminoso e brillante sopra la testa di Parlottino. Stupefatto di quel fenomeno, mi fermai, alzai gli occhi verso l’alto e vidi fra le grigie nubi un cerchio di cielo azzurro, da cui filtrava la luce del sole che illuminava il piccolo uomo e si spostava con lui, seguendolo ovunque andasse: mi sembrò il faro puntato sul protagonista di un grande spettacolo.
Per i giorni a venire non si parlò d’altro in paese; e il bello è che da quel giorno in poi nessuno seppe dire se si fosse trattato di un’allucinazione generale o se fosse stato l’ennesimo pettegolezzo inventato da chissà chi, perché le persone potessero avere qualcosa di cui discutere quando si incontravano per la strada. Se così fosse stato io avrei certamente perso il mio incarico di narratore della realtà.

Due acque

Un torrentello di campagna, né troppo largo né troppo stretto, scorreva placidamente fra due filari di platani. Sembrava una giornata come tante, il sole splendeva caldo nel cielo, l’acqua era al solito un po’ verdina, le piante sommerse si lasciavano ondeggiare al fluire della corrente, e qua e là risplendevano piccoli diamanti di luce solare. Non certo come il giorno prima, quando piovve a più non posso e il torrentello si sentiva un po’ gonfio.
Quel mattino tutto sembrava tranquillo, quando ad un certo punto il torrentello si sentì stranito, come se fosse stato diviso in due.
“Che strana sensazione...” si disse il torrentello “Che sarà mai? Non mi starò buscando qualche malanno per la pioggia che è venuta ieri?”
Mentre faceva questi pensieri, si fermò sulla riva un merlo che voleva dissetarsi, ma lanciata un’occhiata al torrentello, fischiettò esterrefatto: “Che razza di acqua è mai questa?”
Il torrentello sentendo quelle parole chiese al merlo: “Come sarebbe a dire che razza di acqua è?” Ma quello aveva già preso il volo alla ricerca di un altro luogo dove potersi dissetare.
Si fermò un cane vagabondo. Stava già pregustando ad occhi chiusi la bevuta che si sarebbe fatto, ma appena adocchiò l’acqua disse con voce grossa: “Oh, grande boby, mai vista un’acqua del genere!” Si stava già allontanando, quando il torrentello gli gridò: “Ehi, come ti permetti? Che ha la mia acqua che non va?”
“Dovresti farti curare!” disse il cane girando la testa all’indietro.
“Allora son proprio malato!” si disse il torrentello piagnucolando.
Dopo qualche tempo vide passare di là una mucca che camminava a passo lento.
“Signora Mucca!” chiamò il torrentello.
La mucca si guardò intorno e non vedendo nessuno urlò spaventata: “Mmma chi ha mmai detto qualcosa?!”
“Io” cercò di rassicurarla il torrentello “Sono io signora Mucca, il torrente al suo fianco”
La mucca lo guardò incredula e dopo un attimo di meraviglia muggì: “Mmma ti pare il mmodo di mmolestare una povera mmmucca!”
“Mi scusi, non volevo spaventarla” disse gentilmente il torrente “Vorrei solo chiederle se nota niente di strano in me”
La mucca avvicinò il muso verso l’acqua e dopo aver guardato bene disse: “Ora che me lo fai notare, c’è sì qualcosa di strano: sei diviso a metà e neanche troppo bene”
“Cheee... significa?” si lamentò il torrentello “Sooono fatto a peeezzi, forse?”
“A pezzi non direi” disse la mucca “mma di due colori lo sei!”
“Oh, per tutti i flutti, adesso svengo!” sussurrò sgomento il torrente. Poi subito chiese alla mucca: “Ma di che colori sono?”
“Sei un po’ verde e un po’ mmarrone” rispose la mucca divertita.
“E pensi sia grave?” domandò ancora il torrente.
“Be’, io la tua acqua in questo punto non la berrei, forse un po’ più in là” disse la mucca un po’ più seria.
“Perché un po’ più in là?” il torrentello non capiva.
“Perché sei diviso, sì, ma solo qui, dopo quella grande curva” spiegò la mucca.
“Oh, ma allora... niente di grave!” disse sollevato il torrentello.
“Pare quasi un’irritazione locale!” disse la mucca.
“No, è che ieri tutta quella pioggia... deve aver smosso un poco il monte” azzardò il torrentello.
“Mmma che vuoi? Tutti prima o poi ci sentiamo divisi in due. Guarda mmme” disse la mucca “ho due corna, due zammpe davanti, due dietro, due occhi, due orecchie...”
“Eh già, vedo” disse il torrentello “Per me è davvero la prima volta, non sono abituato ad avere due acque”
“Mmmh! Ti comprendo, sai?” disse benigna la mucca.
“Perché? Anche tu ti sei divisa da poco?” chiese il torrente meravigliato.
“No. Più che altro è la mmia coda” rispose la mucca.
“Ah! E perché mmai?” chiese con trasporto il torrente.
“Anche lei non è divisa, è una sola” disse la mucca.
“Be’, cosa c’è di strano? Anch’io lo sono di solito!” fece notare il torrente.
“Sì, mmma la mia coda” disse la mucca un po’ affranta “non vorrebbe stare sola, cerca sempre di dividersi: è per questo che tutto il santo giorno va un po’ di qua e poi va di là, torna di qua e ancora di là, prima di qua, dopo di là...”
“Eeeeh!” gorgogliò il torrentello “Io ho due acque e non lo sapevo, tu hai una coda che vorrebbe una gemella... E’ davvero tanto strano questo mondo dove scorro!”

Un cielo omogeneo

Il cielo stamattina è d’un colore omogeneo, tutto lo stesso colore fino a perdita d’occhio. Succede anche in inverno nelle giornate serene, quando l’azzurro del cielo è cristallino e permette di vedere fin dove è possibile agli occhi. Stamattina invece il colore è unico, ben distribuito, ma tende ad un grigio azzurrino. Non è che mi metta tristezza, è già tanto che non piova e possa farmi una passeggiata in questo enorme e bellissimo parco senza la preoccupazione di bagnarmi. E’ la prima volta però che vedo il cielo coperto di nubi senza la minima increspatura o una diversa intensità di colore qua e là. Comunque non essendoci foschia, il mondo circostante è ben definito, le cose si distinguono bene; certo, non hanno la luce dei giorni pieni di sole, ma vedere che gli alberi, i fiori, le panchine, i giochi, le persone, i cani, i cespugli, le biciclette, hanno dei tratti definiti... mi sembra di vedere il disegno di un bambino.
E’ già estate, ma sembra che la stagione stenti a decollare, la brezza che soffia in modo quasi costante è tiepida e porta con sé l’odore della pioggia caduta da qualche parte, chissà dove. Di vita nel parco ce n’è, se non quella umana, sicuramente quella degli insetti: facendo il vialetto qualche minuto fa mi sono ritrovato in una nuvola di moscerini di chissà quale specie, che se non ne ho fatto banchetto è stato solo perché avevo la bocca ben chiusa.
C’è calma.
Sarà calma dopo la tempesta o quella che fa presagire una bufera?
Chissà!
Sì, è una calma un po’ piatta, sarà questa luce un po’ spenta: non fosse perché sono le dieci e mezza di un giorno di fine giugno, si potrebbe benissimo dire che siamo ai primi di ottobre. Forse anche il tempo ha bisogno di fare una pausa, di non essere sole pieno o nemmeno pioggia battente, ma di stare lì a metà, per decidere cosa sia meglio per quella giornata o in vista della successiva, per quello che deve succedere ad ognuno...
Intanto me ne sto qui ancora un po’, a leggere il libro che mi sono portato, a sentire i bambini che giocano e strillano, a guardare le formiche che mi salgono sulla mano, ad osservare un moscerino atterrato malamente sulle pagine del mio libro, a godermi questo giorno.

Pusillanime!

“Sei un maledetto pusillanime!!” gridò il balivo all’amico bardo seduto nella taverna di fronte a lui “Dopo tutti questi anni hai deciso che donna Marta non sia più degna di far parte della tua compagnia, eh?”
Il bardo lo guardava di sottecchi senza aprire bocca.
“E poi? Per che cosa?” continuò il balivo “Per un’attricetta squinternata che probabilmente ti ha fatto girare la testa, ma che di fatto non sa nemmeno cosa sia il palcoscenico!”
“E’ necessario che le compagnie d’arte si rinnovino” disse il bardo remissivo.
“Certo!” urlò il balivo alzandosi in piedi “E tu chi fai fuori? Colei, mia moglie tra l’altro, che ha fondato con te la compagnia. Anzi, non fosse stato per le sue insistenze quella compagnia non sarebbe neppure nata!”
“Lo so, lo so” disse il bardo “Ora sei fuori di te, ma più in là capirai!”
Il balivo lo fulminò con lo sguardo. Si chinò verso l’amico, si mise con la faccia a pochi millimetri dalla sua e poi disse con voce minacciosa: “Non sono io che devo capire, è Marta!”
“Ma... comunque” aggiunse il bardo “Marta può restare nella compagnia, io non ho motivo alcuno per allontanarla”
“E pensi che lei accetterebbe? Sei proprio un pusillanime, sei un senza midollo, un bamboccio!” disse il balivo con uno sguardo di commiserazione “Come puoi pensare che lei che è stata la musa delle tue opere, l’interprete più applaudita di tutti i dintorni, il secondo nome della compagnia accanto al tuo, e questo solo per la tua vanagloria, possa cedere il passo con non chalance e mettersi in un angolo a guardare morire la compagnia alla quale ha votato totalmente la propria vita di artista? Sai come si chiama questo, dopo quindici anni di intesa? Tradimento! E chi tradisce rivela finalmente la sua vera natura: è un falso, è un racconta frottole! E più di tutti le frottole le racconti a te stesso! Perderai il rispetto di chi ha creduto in te in questi anni e di tutti quelli che sapranno di quale infimo livello sei!”
E detto questo uscì dalla taverna.
Il silenzio che si era creato alle invettive del balivo, fu sostituito dal brusio dei commenti sussurrati dai presenti che lanciavano sguardi intolleranti verso quell’artistucolo da quattro soldi che si fregiava del titolo di bardo.
“E’ una reazione a caldo” disse quest’ultimo a chi era seduto ai tavoli vicini “Sono sicuro che sapranno comprendere la situazione e ci rideranno sopra”
Detto questo anche lui se ne andò.
Appena uscito dalla taverna pensò fosse una buona idea andare a trovare Marta.
“Ah, sei tu” disse Marta freddamente appena aprì la porta di casa “Entra”
“Marta, ci tenevo a dirti...” disse il bardo appena entrato, ma lei lo interruppe: “Che ti dispiace? Ma falla finita!”
“No, volevo dirti che puoi rimanere nella compagnia”
“A far che? La tappabuchi suggeritrice di quella là?”
“Ti garantisco che Cosetta ha tutte le qualità per diventare una grande artista... certo lei vorrebbe che tu non ci fossi...”
“E tu?” chiese Marta con le mani ai fianchi.
“Io... io non ho motivo di mandarti via...” disse querulo il bardo.
“Sento che stai per dirmi un ma” disse Marta guardandolo di sbieco.
“Ma... non voglio nemmeno rinunciare a Cosetta”
“Pusillanime!” sibilò Marta mentre si girava verso la finestra. Poi aggiunse: “Se credi che accetterò le tue meschinità e inutili proposte di mediazione, sei proprio... una nullità! Non sai farti valere, sei una mollica di pane che appena trova delle mani più morbide si lascia trasformare in una sfoglia trasparente”
Dopo qualche attimo di silenzio Marta si girò verso il bardo e gli disse con voce ferma e calma: “Senti, non abbiamo più niente da dirci, tieniti la tua pivella, spero che possa almeno darti delle soddisfazioni”
“Mi dispiace” sussurrò il bardo avvicinandosi alla porta.
“Ma non ci credi neanche tu!” ribatté Marta sempre calma “Ho creduto in te per quindici anni e pensavo fosse lo stesso per te; pensavo fossi un uomo e invece sei un vigliacco ipocrita e opportunista. Chissà, forse ho sbagliato io a giudicarti in tutti questi anni, tutto potevo pensare e intuire tranne che tu fossi... un pusillanime, anzi meno di un pusillanime!”
Il bardo stava aprendo la porta quando Marta aggiunse: “Mi auguro che la tua biondina non si stanchi troppo presto di te, perché se dovessi venire a bussare a questa porta potresti capire molto in fretta e concretamente cosa significhi essere un senza midolla!”

Ricordi Ladylay?

“Ti ricordi di Ladylay?” chiese Axelo.
“Ladylay...? No” disse Bound “Dovrei?”
“Be’, difficile non ricordarsela.” sottolineò Axelo.
“Non così difficile, visto che io non me la ricordo” sostenne Bound “Chi è?”.
“Ma sì: alta, mora, con un fisico portentoso, simpatica, divertente...”
“Una racchia!” concluse Bound.
“Macché racchia!” rispose Axelo “Io... mi sono un po’ invaghito di lei!”
“Be’, questo non vuol dire niente, tu ti innamori di ogni fanciulla che si mostra appena appena gentile con te” disse ironico Bound.
“Ma cosa dici?” disse Axelo risentito “Di cosa parli? Non sai nemmeno di cosa parli!”
“Va be’, lasciamo perdere!” mormorò Bound. “Allora... questa Ladylay? Mi spieghi chi è?”.
“Mah... non saprei che altro dirti di lei” rispose Axelo.
“Ah proprio un tipo da ricordarsela!” affermò Bound “Quante donne ci sono al mondo alte, more, con un certo fisico e divertenti?”
“Come Ladylay, poche!” disse Axelo con tono convinto.
“Certo!...” disse Bound sostenuto.
“Comunque” riprese Axelo “mi ha chiamato.”
“Mh!” fece Bound.
“L’ultima volta che l’ho vista è stato cinque anni fa” continuò Axelo.
“Ah...”
“E... mi ha chiesto...”
“Sì...?”
“...se ricordavo che fine avesse fatto la sua borsa amaranto...”
“Uhelà! Grande interesse per te, eh?” disse Bound.
“Be’, d’altronde dopo cinque anni...” accennò Axelo.
“E la prima cosa che ti chiede riguarda la sua borsa?” chiese Bound “Questa me la devi spiegare perché non l’ho capita.”
“In effetti... non è la prima cosa che mi ha chiesto...” disse Axelo misterioso.
“Ah no? E che cosa ti ha chiesto di così interessante?” Bound cominciò ad incuriosirsi.
“Mi ha chiesto di te” disse asciutto Axelo.
“Ah!” disse Bound altrettanto asciutto. “E... cosa ti ha chiesto?”
“Se ti ricordavi di lei.” rispose Axelo.
“Bel problema! Io proprio non mi ricordo di lei!”
“E a quanto pare” aggiunse Axelo “nemmeno del prestito che ti ha fatto cinque anni fa”.
“Un prestito?” chiese pensieroso Bound.
“Più che altro...” disse Axelo non riuscendo a trattenere un sorriso ironico “non l’hai pagata.”
“Pagata? Per cosa?!”
“L’integerrimo Bound, l’uomo tutto d’un pezzo... Ricordi il mio addio al celibato?” chiese Axelo.
“Sì, vagamente, son passati... cinque anni!”. concluse sussurrando Bound e sbiancando in volto.
“Ah, vedi che cominci a ricordare?” fece Axelo, agitando scherzosamente il dito indice in segno di rimprovero.
“Pensavo di aver fatto un sogno...” iniziò a dire Bound.
“...talmente coinvolgente da sembrare vero!” completò Axelo “Risposta esatta! Eri talmente ubriaco da non ricordare assolutamente nulla!” e scoppiò in una gran risata.
“Ah, ah, ah...” scandì Bound scuro in faccia; e se ne andò senza aggiungere altro.
“Ehi Bound” gli gridò Axelo “una domanda: è più facile che un sogno diventi realtà o è la realtà ad essere soltanto un sogno?”

giovedì 21 giugno 2012

Il ragnetto canterino e burlone


Ah… che bella l’estate quando si può stare all’aria aperta, seduti all’ombra delle piante fiorite o piene di frutti, senza troppo caldo e magari con un po’ di venticello… Io ho passato così la mia estate qui in collina, lontano dalla grande città, piena di macchine, di rumore, di smog, di gente che corre dalla mattina alla sera, che va a fare lo ‘sciopping’, che pensa a cosa deve fare dopo mentre sta parlando con l’amica, il cliente, il sacrestano o la suocera. Che mania sarà mai quella di essere sempre proiettati a domani? Non è ancora cominciato oggi e già pensi a domani?
Comunque, dicevo, è così che ho passato la mia estate: ogni mattina, dopo aver fatto colazione, e ogni pomeriggio, dopo una bella dormitina, mi mettevo sotto una delle piante del giardino e stavo là per alcune ore a leggere o a scrivere, o anche solo a guardarmi intorno – ho lavorato talmente tanto durante tutto l’anno che l’unico pensiero che avevo in testa era quello di riposare, riposare e riposare.
Una mattina mi sono messo sotto l’albero delle albicocche con tutta l’intenzione di leggere un romanzo di cui mi avevano parlato molto bene alcuni amici di famiglia. In effetti quel libro era davvero appassionante, più lo leggevo e più avevo voglia di leggerlo, preso dal desiderio di sapere come sarebbe andato a finire. Ero talmente preso dalla lettura che non mi rendevo conto del tempo che passava e più che essere all’ombra di rami carichi di albicocche, mi sembrava di essere nei luoghi dove agivano i personaggi della storia che stavo leggendo.
Erano ormai passate almeno due ore da quando avevo iniziato a leggere, quando ad un certo punto sentii un suono finissimo, acutissimo come un tintinnio leggero che si ripeteva in varie sequenze, tutte diverse l’una dall’altra. Mi sono detto: ‘Sarà certo qualcuno che non riesce a fare a meno di giocherellare con il telefonino: neanche in vacanza si può star tranquilli!’. E poi mi sono rimesso a leggere.
Passarono solo pochi minuti e sentii di nuovo quel suono tanto fine, quanto fastidioso. Alzai la testa dal libro per guardare intorno e trovare chi stava usando il cellulare in quel luogo di grande quiete; ma appena alzai lo sguardo, vidi davanti a me un piccolo filo argentato che scendeva dai rami e andava a finire proprio sul bordo dei miei occhiali. E lì, nel punto esatto in cui finiva quel filo brillante alla luce del sole, mi accorsi che c’era un piccolo ragno rosso, piccolo come ne avevo visti pochi, talmente piccolo che per vederlo bene mi si incrociavano gli occhi.
Che stesse cantando quel ragnetto tutto indaffarato? …dei suoni così fini potrebbero essere il canto di qualcuno o qualcosa di molto piccolo… Mah!
Dopo averlo osservato ancora per qualche istante mentre muoveva svelto le sue zampettine a lavorare il filo che scendeva dall’alto, gli dissi:
“Ehi tu, ti sembra il posto giusto per costruire la tua ragnatela?”
Il ragnetto, con molta calma e senza assolutamente spaventarsi, si girò verso di me e disse: “Be’, è un posto come un altro, tanto più che mi sembra che qui la mia ragnatela attacchi proprio bene!”
Non ci potevo credere: non solo non si era spaventato, ma aveva risposto convinto di aver ragione!
E di nuovo quei suoni! Che stesse cantando davvero?
“Secondo te, allora” gli dissi osservandolo ancora con gli occhi incrociati “io dovrei restarmene qui immobile per tutto il tempo che ti fa comodo? Non sono mica un ramo di questo albero, io!”
“Sei rimasto fermo come un sasso per un sacco di tempo” ribatté il piccolo ragno “perché dovresti muoverti proprio adesso?”
“Be’, perché tra un po’ è ora di pranzo e dovrò rientrare in casa per prepararmelo” gli dissi un po’ risentito.
Il ragnetto si fermò stupito e poi mi disse: “Io sono più fortunato, è il cibo che viene da me” E senza aggiungere altro, ma facendo ancora quei suonettini piccoli piccoli, si diresse con un altro pezzo di filo verso il mio naso e lo incollò per bene.
Eh sì, stava proprio cantando! E con quale spensieratezza!
“Oh, senti” gli dissi innervosito “adesso mi fai il piacere di toglierti dal mio naso e di andare a fissare la tua ragnatela da un’altra parte! Altrimenti…”
“Ma questo promontorio è ancora più adatto per fissare la mia ragnatela!” esclamò il ragnetto tutto eccitato “quasi quasi lo fisso anche dall’altro lato…!”
“Vuoi fare la fine delle tue prede?” gli chiesi con tono minaccioso.
“E come faresti? Anche tu costruisci ragnatele?” mi chiese curioso il rosso insetto.
“No, ma le mie dita potrebbero appiattirti per bene!” gli dissi io sempre più irritato da quel tono strafottente.
“Oh be’, poco male” ribatté il ragno senza smettere di lavorare “ci sarà qualche altro collega che verrà a costruire la sua trappola da queste parti… titiriti ti ti…”
‘Eh no, adesso sta esagerando!’ pensai tra me. Alzai un braccio, afferrai il filo rilucente che pendeva dall’alto, lo staccai dai miei occhiali e dal mio naso e poi lo incollai ad un rametto cresciuto verso il basso.
“Oh… ba ba ba ba…” ironizzò il ragnetto “E’ così che metti in atto le tue minacce?”
Be’, non sono un ragnicida, io!” dissi con tono fra il risentito e il divertito.
Figurati se avevo voglia, io, di diventare una polpetta fra le tue dita!” canticchiò il ragno ridacchiando. Come potevo non ridere anch’io?
“Allora, adesso che mi sono liberato di te posso andare a prepararmi il pranzo” dissi benevolmente al mio nuovo piccolo (piccolissimo!) amico tessitore.
“Benissimo!” esclamò lui “Così finalmente ci sarà il silenzio adatto perché la mia rete peschi qualcosa e anch’io possa sfamarmi!”
“Ah, sei un ragno pescatore allora?” gli chiesi ironico.
“Certo!” rispose l’amichetto “Soprattutto se devo far abboccare un pesce lesso come te!”
“Pesce lesso a chi?” feci io.
“Guarda un po’ cosa c’è fra le dita della tua mano e capirai!” disse il ragno sicuro di sé mormorando ancora qualche nota.
Alzai una mano… non c’era niente; alzai l’altra… non c’era niente!
Ecco! Vedi che hai abboccato?” disse il piccoletto facendo il gesto di riavvolgere il filo di una canna da pesca “Se non fossi un pesce lesso non ci saresti cascato!”
E alzando una zampettina verso di me in segno di saluto, riprese a canticchiare quel motivetto che ormai mi era entrato in testa e che, volente o nolente, diventò il tormentone della mia estate in collina.

La scuola della musica dal vivo


Il cortile era pienissimo di gente, c’erano persone più o meno giovani, uomini e donne, musicisti, cantanti o semplici appassionati. Tutti attendevano di essere chiamati per sostenere l’audizione superata la quale era possibile frequentare i corsi di quella che fu chiamata ‘La scuola della musica dal vivo’.
Era circa un anno che tutti i mezzi di comunicazione pubblicizzavano questa novità. Radio, giornali, televisioni e affissioni lanciavano slogan di ogni tipo, che venivano rinnovati di settimana in settimana: era necessario tener vivo l’interesse per una proposta che sembrava rivoluzionare il mondo della musica.
Non vedo l’ora di far sentire le mie canzoni” diceva qualcuno.
Chissà come ci si divertirà!” ipotizzava qualcun altro.
Buongiorno e benvenuti a tutti!” si sentì improvvisamente dagli altoparlanti “Sono Giona Cabis, uno dei fondatori e preside della ‘Scuola della musica dal vivo’. Prima di dare inizio alle audizioni, tenevo a dire a tutti quanti... che non dovete farvi troppe illusioni... di realizzare i vostri sogni, nel caso sarete ammessi ai corsi. Ho sentito qualcuno che diceva di voler diventare un grande compositore, altri che sognano di migliorare il proprio canto, altri ancora che vogliono affinare la propria tecnica... Be’, non è questo l’approccio giusto per divenire allievi di questa scuola”
Il preside sembrava non volesse continuare il suo discorso e dopo un lungo momento di silenzio - a parte il brusio generale a commento di quanto sentito - qualcuno domandò:
Allora? Qual è il giusto approccio?”
Oh, finalmente!” disse Giona Cabis al microfono “Pensavo che ormai nessuno si sarebbe azzardato a chiederlo, ero già pronto a chiudere i battenti ancor prima di iniziare. Intanto toglietevi dalla testa qualsiasi aspettativa, e poi quelli che saranno ammessi scopriranno qual è la giusta predisposizione. Ed ora si dia inizio alle audizioni, i risultati saranno resi noti domani mattina”
Il brusio riprese corposo, le persone esprimevano dubbi, domande su come mettere da parte le proprie aspettative, qualcuno se ne andò deluso, altri sentirono crescere la propria curiosità.
Ci vollero parecchie ore perché tutti gli aspiranti allievi fossero ascoltati; man mano che il tempo passava il cortile si svuotava, anche se molti erano rimasti tutto il tempo, alcuni ad aspettare gli amici con cui erano venuti, altri per chiacchierare con l’amico appena conosciuto, altri ancora che speravano di scoprire di lì a poco quale fosse l’arcano di quella scuola. Si formarono qua e là anche dei piccoli assembramenti, a creare mini-concerti nati attorno a chi aveva iniziato a suonare qualcosa, a cantare una melodia, o si era avvicinato solo per ascoltare e poi si era trovato a scandire il tempo schioccando le dita. Non pochi si fermarono tutta la notte.
Il mattino seguente, alle nove in punto, vennero esposti i risultati delle audizioni. I primi che cercarono il proprio nome fra quelli elencati, furono naturalmente quelli che dormirono in quel grande cortile. Furono anche i primi a meravigliarsi del fatto che erano stati ammessi tutti quanti! Com’era possibile? Che senso avevano avuto le audizioni? E come si sarebbero svolte le lezioni con un numero così elevato di allievi? Le reazioni degli aspiranti furono molto variegate: ci fu chi si sentì preso in giro, chi sentì solleticare ancor di più la propria curiosità, chi esigeva delle spiegazioni, chi pensava di cominciare a capire come funzionavano le cose alla scuola della musica dal vivo.
Finalmente, verso le undici e trenta, uscirono il preside e tutti coloro che con tutta probabilità - chi poteva saperlo con certezza? - sarebbero stati i docenti.
Il signor Cabis prese il microfono e disse:
Buongiorno”
Nessuno rispose, non c’era brusio. Ma il silenzio in quel cortile era molto eloquente.
Prima lezione” disse Cabis “aspettarsi di tutto”
Il silenzio persisteva.
Seconda lezione...” continuò il preside.
Non aspettarsi niente?” chiese qualcuno a voce alta.
Un lieve brusio prese il posto del silenzio.
Esatto!” fece Cabis “Qualcuno comincia a capire”
E chi non capisce?” chiese un’altra voce.
Chi non capisce...” disse il preside alzando le spalle “può scegliere di restare e cercare di capire oppure se ne può andare continuando a non capire”
Il brusio di fece più intenso. Molti degli ammessi se ne andarono.
Cabis lasciò che gli allievi si confrontassero fra loro e dopo qualche minuto chiese: “Ci sono altre domande?”
Il silenzio tornò sovrano, ma ora si sentiva che era per ascoltare. Cabis si voltò verso i suoi colleghi e fece loro un sorriso d’intesa. Si poteva cominciare.
Terza lezione” disse al microfono “Chi suona uno strumento si prepari a suonarlo come non ha mai fatto, chi canta non pensi di farlo come un cantante, chi vorrebbe solo ascoltare cominci a sentire il ritmo pulsante del suo cuore”
Gli allievi cominciarono ad appassionarsi alla cosa, glielo si poteva leggere negli occhi, si capiva dall’attenzione con cui seguivano quelle... prime lezioni. Nessuno aveva sentito parlare così una persona, sentivano che sarebbe stata una grande avventura, qualsiasi cosa questo significasse.
Quarta lezione” continuò Cabis “Vi ho detto che dovete aspettarvi di tutto e nello stesso tempo non aspettarvi niente da questa scuola. Ciò che vi dovete aspettare, comunque, è che alla fine di questo percorso, che nessuno sa quanto durerà, ciò che avrete imparato non sarà fare musica, ma come farvi musica”
Il preside scandì le ultime parole molto lentamente.
Poi cominciò a segnare il ritmo battendo un dito sul microfono e tutti i presenti si unirono come meglio sentivano, chi con gli strumenti, chi con la voce, chi con le mani, persino con i piedi; man mano che il brano prendeva forma, gli allievi si resero conto di aver appena dato vita al primo concerto della Scuola della musica dal vivo.
E questo era solo l’inizio. Ciò che impararono in seguito nessuno lo seppe mai spiegare chiaramente; su una cosa erano d’accordo: si sentivano tutti più vivi che mai.

lunedì 18 giugno 2012

Un'intesa perfetta

Ixpira aveva deciso di prendersi una lunga vacanza, dopo tutti quei mesi passati a lavorare, a scrivere e a dare spazio alle idee… Era già passato un mese, ma ancora non se la sentiva di riprendere la sua normale attività. Era comprensibile che fosse stanca e che avesse bisogno di ricaricarsi di nuove energie, ma c’era chi sentiva la sua mancanza. Dopo una ventina di giorni che Ixpira era partita, il suo amico Razon, che si occupava di tutte le questioni logistiche e organizzative della società che insieme avevano fondato, aveva tentato di contattarla, ma dopo una breve telefonata fatta di monosillabi quasi strappati a forza aveva deciso di attendere il suo ritorno; la conosceva, doveva lasciarle lo spazio e il tempo che preferiva.
Ixpira durante quella vacanza si era rifugiata nel capanno di famiglia sul fiume Imago, passava molto tempo senza far nulla, si accoccolava sul divano, a volte sonnecchiava, a volte guardava fuori dalla finestra… forse a ripensare a quante volte da bambina si era divertita a scrivere delle frasi costruendo le lettere con i ciottoli che trovava sulla riva o anche nell’acqua; quanti versi, quante rime, quante strofe…
Avesse trovato il modo, avrebbe scritto con i ciottoli anche le melodie che si inventava quotidianamente. In effetti una volta ci provò: prese delle canne sottili, ne crescevano abbondanti lungo la riva del fiume, le sistemò a formare i tasti di un pianoforte e poi cominciò a suonare; ma visto che le note che suonava non potevano essere ascoltate da chi fosse passato di là anche se lei non c’era, decise che non era il caso di darsi tanta pena.
Le parole invece che scriveva con i ciottoli, chiunque avrebbe potuto leggerle in qualsiasi momento, o almeno fino a che non fossero state… cancellate dalla piena del fiume o da qualche sbadato avventore che ci avesse camminato sopra.
Quell’anno aveva davvero lavorato tanto, spesso da sola (sempre comunque in compagnia del suo fidato amico Razon), alcune volte collaborando con altri.
“Adesso Razon è il momento che io faccia una buona pausa” aveva detto Ixpira all’amico una mattina di fine agosto “Tu intanto puoi continuare il tuo lavoro, di cose da fare ce ne sono sempre”
“Be’, se non hai niente in contrario” ribatté Razon dopo un attimo di stupore “in vacanza ci andrei anch’io”
“Oh sì, va benissimo” rispose Ixpira colpita da quell’idea “Non so quanto resisterai, ma fai pure”
In effetti Razon riuscì a farsi solo qualche ora di vacanza, a lui bastava poco e poi sentiva il bisogno quasi irrefrenabile di occuparsi di qualcosa. Aveva però col tempo imparato a darsi, in un certo modo, un ordine di attività, per non sprecare tempo in valutazioni estemporanee fine a se stesse - nelle quali era stato un vero campione - e finalizzare meglio il suo operato quotidiano. Adesso riusciva anche a trovare spazio per attività meno impegnative, come farsi una passeggiata, leggere un libro, ascoltare della musica, e magari rimandare a domani ciò che avrebbe voluto concludere oggi.
Ixpira restò ancora molto a lungo in vacanza, ma non più isolata come nel primo periodo: praticamente sentiva ogni giorno il suo amico Razon per dargli una mano a portare avanti i piccoli progetti concreti che andavano realizzati. Fra i due c’era ormai un’intesa perfetta: dopo un lungo, se non lunghissimo, periodo di rodaggio problematico della loro collaborazione, ora bastava uno sguardo, una parola, poche righe, perché le idee si facessero realtà in poco tempo, lasciando da parte gelosia, invidia e desiderio di primeggiare. Ognuno dava il meglio di sé, l’attività aveva preso fluidità e quelli che li conoscevano ne restavano ammirati.

venerdì 15 giugno 2012

Una strada lastricata nel bosco

Ludovico stava passeggiando con spensieratezza lungo un sentiero nel bosco dietro il castello di suo padre, quando ad un certo punto si fermò di colpo: si girò indietro e si accorse che da qualche centinaio di metri non stava più camminando su un sentiero fatto di terra e sassi; no, era una strada lastricata, fatta di lastre di marmo di varie forme, ma tutte, tutte bianche.
“Che ci fa una strada così conciata nel nostro bosco millenario?” si chiese a ragione Ludovico. E con questa domanda in testa, ancora senza risposta, ricominciò a camminare nella stessa direzione verso cui stava andando prima di fermarsi a notare quella stranezza. Camminò a lungo, quella strada bianca sembrava non finire: un po’ saliva, un po’ scendeva, faceva un’ampia curva, poi sembrava ritornare... ma capire dove andasse a finire esattamente pareva non fosse possibile saperlo.
Ad un certo punto Ludovico si fermò, erano ore che stava camminando e altrettante ore doveva camminare per tornare al castello.
“Ci tornerò domani” disse tra sé “ma in groppa a Giacinto, il mio destriero”
Quando arrivò al castello non parlò con nessuno di ciò che aveva visto, prima doveva scoprire dove conduceva quel sentiero... ormai un ex-sentiero, sembrava il pavimento della sua camera da letto.
Così, la mattina dopo, alzatosi molto presto, si recò alle stalle dove sellò personalmente il suo cavallo.
“Oggi Giacinto ti porto a vedere una cosa...” disse al cavallo mentre gli infilava il morso e le briglie “Non te lo potresti proprio immaginare, caro mio”
Il cavallo, giratosi verso il suo cavaliere, sembrava guardarlo con aria interrogativa.
Si avviarono verso il bosco quando il sole aveva appena iniziato a filtrare fra gli alberi.
Con sua grande sorpresa, Ludovico notò che la parte lastricata del sentiero iniziava a poche centinaia di metri dal castello; fermò il cavallo, si volse indietro, guardò ancora avanti e poi si disse:
“Ieri non cominciava in questo punto, qualcuno stanotte si è dato un gran da fare” Ripresero il cammino al trotto, gli zoccoli di Giacinto risuonavano sulle lastre di marmo come se passeggiasse per le stanze del castello.
Ci vollero comunque alcune ore per giungere al punto in cui il sentiero finiva. A qualche centinaio di metri da quel luogo Ludovico scese da cavallo e si avviò a piedi con Giacinto al seguito.
Man mano che si avvicinava il cavaliere sembrava ricordarsi di quel luogo, di quello che aveva provato la prima volta che suo padre ce l’aveva portato e di tutte le volte che ci era stato fino all’età di sei anni. Si stupì della chiarezza con cui ricordava le esperienze legate a quel posto, non ci aveva più pensato.
C’era una casa fatta di pietre, con un tetto molto alto e spiovente, ricoperto completamente di rami secchi e di paglia. Dal camino usciva del fumo, il che significava che ci abitava ancora qualcuno.
“Non sarà ancora il vecchio Melandro?” si chiese perplesso Ludovico.
Legato il cavallo allo steccato che circondava la casa, si avvicinò con passo lento alla porta d’entrata, aperta come lo era sempre quando ci veniva da bambino. Arrivato sulla soglia si fermò un po’ ad osservare la casa, la facciata con le due finestrelle rettangolari, i vasi di legno sui davanzali con fiori d’ogni genere, la trave sopra la porta con inciso il nome di Melandro e la forma stilizzata di una faretra ed un arco pronto a scoccare una freccia; poi si girò a guardare il terreno circoscritto dallo steccato, l’orto sulla destra con ogni sorta di ortaggi, l’abbeveratoio per gli animali del bosco, vicino al punto di entrata; il piccolo pozzo sul quale suo padre lo aiutava ad arrampicarsi per sentire l’eco della sua voce mentre cantava quella buffa nenia che gli aveva insegnato donna Miriam, la sua nutrice. Quanti ricordi!
Si girò per bussare alla porta, ma si trovò davanti... il vecchio Melandro? Sì, era proprio lui che lo guardava con i suoi occhi verdi luccicanti, uno sguardo tanto intenso quanto dolce e il sorriso appena accennato sulle labbra... sembrava non fosse invecchiato per niente.
Restarono così per lunghi istanti, a guardarsi negli occhi; poi si abbracciarono ed infine entrarono nella casa. Appena entrato Ludovico si lasciò invadere dall’odore delle erbe appese sopra il camino, della legna bruciata, della paglia del tetto... e ad ogni profumo emergeva un ricordo.
Melandro, con un gesto della mano, lo invitò a sedersi al grande tavolo centrale, prese due boccali e versò della birra. Fecero un brindisi a quell’incontro dopo tutti quegli anni.
“Venticinque anni!” disse Ludovico guardando negli occhi l’amico.
“Già!” disse il vecchio con un filo di voce.
“Sono opera tua quelle lastre di marmo sul sentiero, vero?” chiese il cavaliere.
“E di chi altri se no?” ribatté sorridente Melandro “Io dovetti partire, ma ti avevo promesso che ci saremmo rivisti, no?”
“Solo che non mi avevi detto...” Ludovico si interruppe preso da un nuovo ricordo “Le nostre strade si incontreranno ancora, mi dicesti”
“E se non si incontreranno...” cominciò a dire il vecchio.
“...faremo in modo che si incontrino” completò il giovane. Poi aggiunse:
“Sono stati momenti importanti quelli che ho passato con te”
“Lo so” disse Melandro commuovendosi “Sono stati importanti anche per me, sei stato il figlio che non ho mai avuto”
“Ed io mi sentivo tuo figlio, nonostante un padre ce l’avessi” Poi seguendo un altro ricordo, Ludovico disse: “Stai per lasciare questo mondo, vero? Avevi detto che speravi ci rivedessimo presto, o almeno prima che tu morissi”
“Ti ricordi proprio tutto?” disse Melandro con un sorriso triste “Non potevo andarmene senza mantenere l’unica promessa che mi stava a cuore”
Il giovane cavaliere rimase col suo vecchio amico per l’intera giornata. Mentre stava per tornarsene al castello disse a Melandro che sarebbe ritornato nei giorni a seguire per stare con lui fino al momento estremo; ma quando arrivò il mattino dopo col suo fedele Giacinto, capì ancor prima di entrare nella vecchia casa che l’attempato cavaliere era già in viaggio per la sua ultima missione.

Due cani

In un cortile di una piccola villetta vivevano due cani, uno si chiamava Abbabbaio e l’altro Boffof. Il primo era un cane piuttosto alto, con il pelo lungo e bianco e abitava lì da molto tempo e quindi si sentiva un po’ il capo. Il secondo, più piccolo, aveva il pelo corto e color rame. Abbabbaio aveva le orecchie rivolte verso il basso, ma non erano molto lunghe; anche Boffof aveva le orecchie all’ingiù, ma le sue erano molto lunghe, tanto che quando mangiava o beveva rischiava sempre che gli finissero nella ciotola.
La vita in quel cortile era un po’ monotona, non c’erano bambini, non c’erano altri animali... In alcuni giorni non c’erano nemmeno i padroni e quando questo succedeva veniva un vicino per occuparsi dei due cani, ma non è che fosse molto espansivo.
Il grande divertimento per Abbabbaio era acquattarsi lungo la ringhiera di cinta e poi d’improvviso iniziare ad abbaiare a quelli che passavano per quella strada con tutta la voce che aveva in gola. “Hai visto che spavento si sono presi?” diceva ogni volta a Boffof che rispondeva imperturbabile: “Davvero? A me non pareva”
“Ah, con te non c’è proprio gusto!” ribatteva deluso Abbabbaio “Come fai a restartene così quieto? Sei una noia mortale!”
Boffof non rispondeva, socchiudeva per un attimo gli occhi e poi tornava a sonnecchiare.
Quello che invece faceva imbestialire Abbabbaio era vedere passare gli altri cani, tanto più se erano da soli, senza guinzaglio, né padrone. “Non li sopporto proprio quelli lì!” diceva rivolgendosi al suo compagno.
Boffof dal canto suo lo guardava per qualche secondo e poi diceva: “Bof! Per me te la prendi per nulla”
“Eccone un altro!” gridava Abbabbaio e correndo lungo il muretto inveiva contro di lui a più non posso.
“Cosa mai ci troverà di così irritante in un collega che passeggia per i fatti suoi...” sussurrava Boffof volgendo gli occhi al cielo.
In estate molti andavano in vacanza, per cui c’erano giorni in cui non passava nessuno da quella strada, né persone, né animali. Erano i giorni preferiti da Boffof, perché non doveva sopportare le urla del suo compagno di cortile e poteva starsene sdraiato a sonnecchiare sotto il salice tutto il tempo, tranne naturalmente che per mangiare e fare i suoi bisognini.
Abbabbaio invece continuava a girovagare avanti e indietro lungo la ringhiera che dava sulla strada, senza riuscire a darsi pace: “Possibile che oggi non ci sia nessuno con cui divertirmi un po’?” Si diceva passando a fianco di Boffof che russava placidamente; dopo averlo guardato qualche istante aggiungeva: “Con te non ci provo neanche, non mi daresti soddisfazione!”
Ma ecco che un giorno d’improvviso sentì un rumore, sottile, continuo, sibilante. Abbabbaio alzò le proprie orecchie più che poté e poi volse lo sguardo verso la strada. “Ah, forse oggi non sarà una giornata persa!” disse dirigendosi verso il muretto di cinta. Arrivato circa a metà si mise accucciato e pian piano alzò la testa quel tanto che gli permettesse di vedere cosa o chi stesse arrivando. In lontananza cominciò a vedere una strana figura, né uomo, né animale, con degli strani piedi che non si staccavano mai da terra e che giravano in continuazione. “Che razza di... bestia è mai questa?” sussurrò sgranando gli occhi dalla meraviglia “Ora glielo faccio vedere io chi sono!”
E appena lo strano ‘coso’ fu sufficientemente vicino, ecco Abbabbaio alzarsi in tutta la sua altezza e abbaiare più forte che poté contro quello strano essere che si azzardava a passare per quella strada e continuava imperterrito ad avanzare - BAU, BAU, BAU, BAU... BAU... - che però poi alla fine - Bau... - non sembrava essersi spaventato molto e anzi pareva - bau... - che del suo vocione - bauf... - se ne facesse un benedettissimo baffo - boff boff...
“Che vuoi?” chiese d’un tratto Boffof che si era avvicinato in silenzio.
“Uaaah!” urlò Abbabbaio facendo un gran salto di terrore; appena tornato a terra gli gridò: “Ma che ti salta in mente di spaventarmi a questo modo?
“Mi hai chiamato e sono venuto” disse calmo Boffof.
“Io? Ma quando mai ho avuto bisogno di chiamarti... io!” disse con tono offeso il cagnone bianco.
“Eppure io ho sentito chiamare!” ribadì Boffof con un tono un po’ meno assonnato.
“Sarà stato quel tipo! Là... guarda” indicò col muso Abbabbaio “è ancora lì a salutare... bla bla bla... Potreste andare molto d’accordo, ti somiglia proprio, tutto calma e gentilezza!”
“Ah quello?” disse Boffof vedendo la persona al di là della ringhiera. Capendo d’improvviso cosa era successo, con aria divertita aggiunse: “Sì, sì, andiamo molto d’accordo!”
“Lo conosci?” chiese Abbabbaio dopo un momento di sbalordimento.
“Io?” domandò l’altro “E chi lo conosce?”
“E come fai ad andare d’accordo con quello se non lo conosci?” domandò Abbabbaio esterrefatto.
“Eh eh eh! Perché con la sua calma e gentilezza è riuscito a farti smettere di fare il casinaro!” rispose Boffof col suo solito tono tranquillo.
“Io casinaro?” scattò Abbabbaio “Io sono il fedele guardiano de...”

domenica 10 giugno 2012

Padrone della strada

Ormai Arcondio sapeva di essere il padrone della strada: aveva tra le mani un mezzo che valeva la pena possedere solo a patto di sfruttarne al massimo tutte le potenzialità. E lui ne aveva tutte le intenzioni.
La struttura del suo nuovo bolide era solida, perché il telaio era fatto con tubi d’acciaio, le ruote erano larghe, con un battistrada molto spesso, un motore con un’accelerazione invidiabile, un sistema di guida a joystick tanto evoluto da dare alle sterzate grande precisione e nello stesso tempo estrema agilità: tutti elementi che rendevano quel mezzo assolutamente sicuro, non c’era pericolo. Ci si poteva permettere, senza problemi, di guardarsi intorno per godersi i paesaggi e il panorama: il controllo era assoluto.
Ah... Finalmente avrebbe potuto viaggiare molto di più, vedere nuovi luoghi, conoscere altra gente: che gli importava ormai di girovagare solo per le strade della sua striminzita provincia, della sua regione e anche della sua bella e declamata nazione? Ora poteva andare e tornare in un giorno macinando centinaia, se non migliaia di chilometri; glielo permetteva, oltre alla grande sicurezza, un’autonomia di carburante strepitosa: il serbatoio era così capiente e i consumi talmente ponderati e contenuti che poteva permettersi di fare un viaggio di migliaia di chilometri senza doversi mai fermare a far rifornimento.
Arcondio, dal giorno stesso in cui si era regalato quella bellezza di tecnologia, cominciò a girare in lungo e in largo ogni nuovo paese che gli veniva in mente di visitare ed ogni volta un fascino nuovo lo assaliva: quanti posti avrebbe conosciuto, quante tradizioni lo avrebbero conquistato, quanta conoscenza, quante cose avrebbe potuto raccontare ad amici, conoscenti, compaesani... e poi... quante donne avrebbe fatto sue con quel bolide fra le mani!
Ritornare a casa ogni sera... oh... era una tale sofferenza! Non vedeva l’ora che venisse il mattino dopo. Appena sveglio prendeva la carta geografica mondiale e la scrutava per brevi attimi intensi e frenetici, con gli occhi assetati di chilometri... Appena adocchiava una qualsiasi strada che ancora non avesse percorso e una meta che valesse davvero la pena raggiungere, prendeva con sé quanto bastava per quel giorno - vestiti ce li ho, caffé l’ho bevuto, portafogli qui in tasca e... cosa manca? Ah! innaffiare l’ortensia che sennò schiatta - e via! si lanciava verso la più bella avventura che mai avesse vissuto: avrebbe fatto strada! Sì, soprattutto... strada!
Ma in fondo ci era costretto! Perché il suo bolide, unico nella sua specie, più faceva strada, meno consumava! Se avesse deciso di fare i soliti viaggetti che si era ridotto a fare prima di accaparrarsi quel gioiello a quattro ruote, avrebbe finito il carburante in men che non si dica! Quello era un mezzo poco adatto a fare tappe o brevi tratti, no! Quello era un mangiastrada, i chilometri, l’asfalto erano il suo pane quotidiano.
Ah, quali sensazioni di pienezza, di orgoglio, di libertà e di... oh... cose difficili da esprimere, tanto sono profonde. Ah, che viaggi! Ah, che posti! Ah, il vento tra i capelli! Ah, lo stupore e la meraviglia di chi ti osserva passare! Ehilà! Salv... sbadatabam!!
...O...ddio, le stelle! Oddio, i pianeti! Oddio, le lune!... Oh, l’asfalto! Oh, che duro!
Ma dico io! A chi è mai venuta in mente la brillante idea di mettere una deviazione per lavori in corso proprio sulla strada che stava percorrendo beatamente il mio amico Arcondio, eh?

martedì 5 giugno 2012

Volare (Dialogo fra passeri)


Pastiche

Eugenio Lapillola veniva preso in giro da amici e conoscenti sin dall’età della pietra... no... ehm... così indietro nel tempo non può essere...
Dunque, vediamo... Eugenio Lapillola veniva preso in giro da amici e conoscenti dall’età... ah già! Che sciocco sono!
Eugenio Lapillola veniva preso in giro da amici e conoscenti sin dall’età dell’infanzia, da quando era nato tutti lo chiamavano Pasticca.
Tutto cominciò il giorno in cui venne al mondo. Era talmente piccolo e gracile che l’ostetrica di turno, presa dalla commozione e dalla tenerezza, non riuscì a trattenersi e con le lacrime agli occhi disse: “Sembra una pasticca!”
Visto il silenzio di tomba che si era creato fra i presenti e gli occhi sconcertati della partoriente, l’ostetrica con un sorriso imbarazzato si corresse: “Sembra... un pasticcino, ecco... eh eh... è questo che volevo dire”
Ma ormai il pasticcio... ehm, no... scusate... la frittata era fatta. In poche ore tutto il paese aveva saputo dell’accaduto; e tanto in fretta i compaesani avevano saputo, che riuscirono ad organizzarsi per far trovare sopra il portone della casa del neonato uno striscione di benvenuto, scritto con caratteri ben disegnati e decorato con ghirlande di fiori di carta.
Cosa c’era scritto?
Ma sì... una semplice frase di benvenuto...
Devo dirlo? Devo proprio?
Va be’; io, come disse il romano, me ne lavo le mani. Sullo striscione c’era scritto così: “Benvenuto Pasticca! Che tu sia sempre pieno di salute!”
Potete immaginare lo sconcerto di mamma e papà Lapillola nel giorno di ritorno a casa quando videro... quella specie di augurio strafottente! A quanto pare anche il piccolo Eugenio ne risentì, perché improvvisamente scoppiò in un pianto disperato che nemmeno le tre poppate successive riuscirono a contenere.
Gli anni passarono, Pastic... no no no... volevo dire Eugenio cresceva bello sano e forte. Una forza che in parte gli veniva dalla sofferenza dell’essere additato, ma aveva imparato a farsi valere con chi decideva di affrontarlo a viso aperto.
A dispetto della sicurezza orgogliosamente esternata, quel soprannome sussurrato ogni santo giorno ad ogni angolo del paese gli pesava sempre di più.
Compiuta la maggiore età decise di andarsene all’estero, dove nessuno lo conosceva e dove avrebbe potuto costruirsi una nuova vita in santa pace, benché lontano da mamma e papà che amava tanto.
Passarono altri anni, nessuno in paese sembrava ricordarsi ormai di Pasticca; o meglio: qualcuno si chiedeva ogni tanto se altri ne avessero avuto notizie, ma non ricevendo risposte certe, tanto meno dai suoi familiari, tornava ad interessarsi delle proprie cose come aveva fatto poco prima.
Un giorno arrivò il circo; il tendone venne innalzato proprio accanto al campo sportivo comunale. I manifesti di cui vennero tappezzati i muri di case e palazzi annunciavano festa grande e divertimento garantito. I bambini erano follemente eccitati dalla possibilità di vedere lo spettacolo, perché un circo da quelle parti non era mai arrivato. Oltretutto era il Grande Circo di Francia e questo sembrava incuriosire ancora di più tutti quanti.
Il giorno del primo spettacolo tutti i posti sotto il tendone erano occupati e tutti gli spettatori aspettavano con impazienza l’entrata degli artisti per applaudire le loro mirabolanti esibizioni. Così si susseguirono giocolieri, trapezisti, animali, domatori... fino al momento più atteso dai bambini, il momento dei clowns.
Ed ora, mesdames e messieurs” annunciò il direttore con il tipico accento francese “sono veramente felice di presentarvi la stella del nostro circo; bambini e bambine, preparatevi a ridere a crepapelle, perché è venuto il momento di far entrare il grande Paaaaastiiiiiiche!!!”
E con una musica allegra e spumeggiante arrivò di gran corsa il clown Pastiche, su un triciclo gigante, pieno di colori sfavillanti. Iniziò a girare attorno alla pista, salutando con gran foga tutti i bambini posti in prima fila e dopo i primi giri cominciarono pantomime e ruzzoloni che fecero divertire il piccolo e grande pubblico in maniera superba.
Dopo alcuni minuti di risate rimbombanti e grida di gioia, Pastiche simulò uno starnuto: “Eeeeh... eeeeeeehh... eeeeetchù!!”
E tutti gli spettatori risposero in coro: “Salute!”
Allora Pastiche cominciò a parlare: “Eh già” disse con accento francese “voi ridete, ma qui rischio di prendermi un bel rafredore” E con un fazzoletto che sembrava un asciugamano si soffiò il naso rumorosamente e tutti quanti risero di nuovo a gran voce.
Ah, vi divertite alle mie spale, eh?” disse il clown dopo un altro starnuto.
Ti ci vorrebbe una pasticca!” urlò un bambino dopo un altro attacco di risa generale. E subito... si fece un silenzio di tomba.
Oh, se è per questo, picolo mio...” disse calmo Pastiche dopo essersi avvicinato “io sono... una pastica vivente!!!” gridò improvvisamente. E togliendo dalla tasca una grande scatola di caramelle cominciò a distribuirle a piene mani a tutti i bambini presenti, mentre la musica con cui era entrato in pista riprese allegra e spumeggiante. Poi, dopo un ultimo lancio di caramelle, il clown Pastiche, al secolo Eugenio Lapillola ribattezzato Pasticca, prese il suo grande triciclo colorato e uscì di scena fra gli applausi scroscianti di grandi e piccini.

giovedì 24 maggio 2012

Non più di un attimo

C’era una volta un piccolo moscerino, più piccolo di un moscerino propriamente detto, talmente piccolo che di solito passava inosservato. Era certo più piccolo di una zanzara, ma anche più piccolo di quei moscerini che infestano qualsiasi cosa di colore chiaro - una maglia, una borsa, un cappello - con preferenza per il giallo e i suoi affini.
Niente di tutto questo: lui era un insettino grazioso, leggero, con un corpicino affusolato diviso in due parti, la testa un po’ allungata e il resto del corpo che sembrava proprio un fuso, visto che finiva a punta; aveva delle zampette più fini di un filo di ragnatela e piuttosto lunghe in proporzione al resto; e poi aveva due alette trasparenti, sottili, piene pienissime di arzigogolati disegni che rifrangevano la luce nei mille colori dell’arcobaleno.
Come lo vogliamo chiamare? Insettino? Troppo banale. Moscerino? Come l’altro. Ci sono! Zampettino! Eh? D’accordo? Perfetto.
Zampettino era solito svolazzare in un posto all’aperto... come si dice? un posto pieno di erba, fiori e piante?! Come? Ah, giusto: un parco. Un parco piccolo, comunque, un...(ih ih!) parchettino: non è che il nostro piccolo moscerino amasse molto gli spazi troppo aperti.
Parrà strano, ma Zampettino ero uno di quei rari insetti alati che in volo amava dilettarsi nel canto, lasciandosi ispirare a volte dal ronzio più o meno lieve delle proprie ali, a volte dai suoni che sentiva qua e là mentre se ne vagava tranquillo a mezz’aria.
Zampettino era un esserino molto socievole, carino, spensierato; lui non poteva fare a meno di salutare tutti quelli che incontrava; a volte, sfruttando tutto quello che aveva a disposizione di zampette, alette e testa, riusciva a salutare contemporaneamente anche una decina di insetti più o meno amichevoli che incrociava, sorvolava o che gli passavano sotto - il traffico in certi momenti è veramente intenso!
C’era però un piccolo inconveniente di cui Zampettino spesso si dimenticava: era talmente leggero che bastava un piccolo soffio di brezza da trovarsi improvvisamente in un’altra parte del suo amato parco, totalmente incapace di coordinare i suoi movimenti, fino a trovarsi... sbattuto nei posti meno immaginabili.
Proprio stamattina me lo sono ritrovato appoggiato su una pagina del libro che stavo leggendo. Si è fermato non più di un attimo, ma per lui, così piccolo, chissà quanto è durato; poi, dopo essersi riassestato sulle sue finissime zampette e aver scrollato la testolina per riprendersi da quel volo incontrollato, aprì le sue alette cristalline e riprese il suo volo spensierato e sereno, canticchiando allegramente il suo brano preferito.

martedì 15 maggio 2012

Non è mai detta l'ultima parola


Miniou e Danielle erano due simpatici e gentili vecchini che vivevano da ormai molto tempo in una casetta di pietre e legno posta sulla scogliera, proprio di fronte all’oceano. Passavano le loro giornate dedicandosi alle numerose coltivazioni che avevano avviato nel loro campo dietro casa. C’erano pomodori, porri, lattuga, fagioli, patate, e poi fragole, pesche, susine... C’era proprio una bella rappresentanza del mondo vegetale.
Potrebbe sembrare che i due signori fossero dei commercianti di frutta e verdura, ma tutto il loro lavoro era dedicato ad avere il necessario per poter mangiare in modo adeguato.
Non mangiavano solo frutta e verdura, intendiamoci. Potevano cibarsi del pesce fornito dal grande mare e della carne che veniva dagli animali che allevavano loro stessi.
Era una vita serena, semplice, scandita dal ritmo delle stagioni.
E lo fu finché un giorno arrivò un ospite inatteso, tanto più inatteso perché da molti anni nessuno passava da quelle parti.
Era un signore distinto, dai tratti gentili, avvolto in un grande mantello e con un cappello a larghe falde. Era giunto da chissà dove su un bellissimo cavallo chiazzato.
Appena arrivò fece ai due vecchini un saluto molto cordiale e chiese loro se avesse potuto fermarsi per la notte. Naturalmente Miniou e Danielle non si tirarono indietro; provenivano da famiglie allargate per le quali era normale ospitare qualche viaggiatore e condividere le proprie risorse. In vista di quella eventualità avevano ricavato nel fienile una stanzetta arredata con un letto a castello, un armadio e una cassettiera e finalmente sarebbe servita a qualcuno.
Appena ebbe sistemato il suo bagaglio nella stanza, il viaggiatore tornò dai due anziani per accogliere l’invito a cenare con loro.
Non si aspetti una grande cena, eh!” disse Danielle al suo ospite.
Oh, non si preoccupi, signora” rispose lui “sarà una cena molto gradita dopo giorni e giorni di carne salata e qualche frutto trovato qua e là”
Da dove venite?” chiese Miniou, curioso di conoscere quel distinto signore.
Da molto, molto lontano” disse l’ospite “viaggiare è parte integrante della mia vita, non potrei fare altrimenti”
Ed è lecito conoscere il vostro nome?” chiese Danielle gentilmente.
Oh certo! Mi chiamo... Angelo Desmortes.”
I due vecchietti rimasero sgomenti.
La vostra fama vi precede, signor Desmortes” disse Miniou quasi sussurrando.
Si dice che dove passa Angelo Desmortes” aggiunse Danielle “la vita non resti per molto tempo ancora”
Purtroppo è la mia maledizione” disse sconsolato Angelo.
Vedendolo molto rattristato, Danielle gli si avvicinò e gli chiese: “E da dove viene questa maledizione?”
Mio padre” disse senza esitare Angelo. Dopo qualche istante di silenzio riprese:
Quando sono nato non volle risultassi discendente della sua famiglia e, accanto al nome scelto da mia madre, mi impose questo... marchio”
E per quale motivo?” chiese Danielle.
Disse che dovevo essere riconoscibile al mondo intero come una malattia che non dà scampo, perché nella notte in cui nacqui mia madre morì e lui mi ritenne responsabile dell’accaduto. E da allora la mia fama, come la chiamate voi, non ha fatto altro che perseguitarmi”
Miniou e Danielle non sapevano che dire.
Se pensate sia meglio per voi” disse d’un tratto Angelo “che io tolga il disturbo, prenderò le mie cose e non sentirete più parlare di me”
Miniou e Danielle si guardarono negli occhi, sapevano capirsi benissimo senza dire una parola.
Non c’è ragione perché dobbiate andarvene signor Desmortes” disse Danielle “saremo lieti di ospitarla per questa notte”
Dopo un altro breve scambio di occhiate Miniou aggiunse: “Se le fa piacere può fermarsi quanto vuole, basta che ci dia una mano col lavoro”
Angelo Desmortes non si aspettava certo un’accoglienza del genere, abituato com’era a fuggire da ogni villaggio o città in cui si era fermato. Finalmente qualcuno aveva superato il timore di averlo vicino anche solo per pochi minuti e forse il suo continuo vagare aveva trovato una meta.
Passarono alcuni giorni, ormai i tre erano diventati una famiglia; Angelo si dava da fare quanto più poteva per aiutare Miniou e Danielle, era uno che imparava in fretta e non si tirava indietro di fronte alla fatica.
Si diceva di essere stato fortunato a incontrare delle persone tanto buone.
Una mattina si alzò come al solito molto presto e uscendo dal fienile pensò di trovare Miniou già al lavoro, cosa che succedeva praticamente ogni giorno; invece non c’era. Così si diresse verso la casa per fare colazione, ma non sentì lo spensierato canto di Danielle che sentiva ogni mattina; e c’era di più: le persiane erano ancora chiuse. Forse mi sono alzato troppo presto, pensò Angelo.
Entrato in casa non trovò nessuno. Chiamò i due vecchini, ma non risposero. Allora decise di salire nella loro camera, chiamò di nuovo; aprendo la porta vide che erano ancora a letto.
Ehi dormiglioni!” disse allegro aprendo la finestra e le persiane.
Ma i due vecchini non si mossero. Angelo si avvicinò al letto e appena scostò le coperte dai loro volti si rese conto che non si sarebbero più svegliati.
Li seppellì in un punto del campo che era stato preparato proprio il giorno prima per una nuova semina e vi costruì intorno una piccola staccionata.
Poi si diresse alla stanza nel fienile, deciso a raccogliere tutte le sue cose e partire il più presto possibile: il sogno che sembrava essersi trasformato in realtà era di nuovo un semplice sogno, e la sua fama maledetta persisteva.
Stava per salire sul suo bel cavallo chiazzato, quando gli venne alla mente ciò che Miniou gli disse dopo che si sentì ringraziare per l’ennesima volta per la sua ospitalità: “Vedi Angelo, non è mai detta l’ultima parola: io e Danielle pensavamo di passare da soli il tempo che ci restava da vivere, mai avremmo pensato che alla nostra veneranda età avremmo ritrovato il piacere di occuparci di qualcuno; per cui tu, caro Angelo, puoi considerarti a casa tua”
D’accordo” disse Angelo un po’ imbarazzato.
E adesso smettila di dire grazie a me e a Danielle per ogni nonnulla” disse Miniou “ti prego, non ne possiamo più di quella parola!”
E insieme scoppiarono a ridere.
Sì, quella era casa sua ormai e andarsene avrebbe significato vanificare e addirittura disonorare l’accoglienza di Miniou e di Danielle.
Così Angelo Desmortes decise di vivere il resto dei suoi giorni su quel pezzo di terra, dove due simpatici e gentili vecchietti gli permisero di nascere una seconda volta e di ritrovare nella semplice vita di tutti i giorni il senso della propria esistenza.