giovedì 26 aprile 2012

Una vacanza insolita


Ma chi me l’ha fatto fare di venire su questo strano coso bianco?” si chiedeva Marango il ragno mentre tentava di risalire lungo le pareti del lavandino “Appena incontro quella maledetta formica mi sente!”
Marango tentò più e più volte di spostarsi da un punto all’altro di quella distesa bianca, voleva vedere come era fatto quello strano posto, quali opportunità offriva; ma ogni volta scivolava verso il punto più in basso e rischiava ogni volta di cadere nel foro discarico.
Guarda tu se per fare una breve vacanza mi tocca fare tutta ‘sta fatica” si diceva stremato per i continui faticosissimi quanto inutili tentativi di farsi quattro passi in santa pace. Il bianco del lavandino lo ispirava, aveva ragione Wendy la formica a dire che sarebbe stata un’esperienza... non divina quanto lei asseriva, ma certamente particolare e forse anche divertente. Solo che si era dimenticata di dirgli che era come tentare di muoversi sul ghiaccio.
Provò anche a lanciare qualche filo della sua ragnatela, ma lo smalto di quel lavandino era talmente liscio che la tela non riusciva a fare presa da nessuna parte. “Sta a vedere che per aver ascoltato il consiglio di quella squinternata di Wendy mi toccherà passare qui il resto della mia vita!” si lamentava Marango di fronte all’impossibilità di trovare una soluzione.
Be’...” si disse sconsolato ad un certo punto “qui ormai fa buio, di andarmene da qui non se ne parla, tanto vale che ci dorma su e domani vedremo il da farsi”
Il mattino dopo preannunciava una bellissima giornata, calda e piena di sole, ideale per farsi una passeggiata. Marango si svegliò dal suo sonno con calma, con aria serena, allungò un po’ le sue lunghe zampe e fece qualche sbadiglio. Già pregustava l’idea di trovare la colazione bell’e pronta sulla ragnatela, ma il bel pensiero svanì subito, perché si ricordò chiaramente dove si trovava dalla sera prima. “Oh no! Ma è proprio un incubo!” si lamentò a gran voce.
Dopo qualche altro momento di sconforto, Marango decise che era venuto il momento di riprovare ad uscire da quella gola scivolosa e bianca in cui si era ficcato.
Nel frattempo si era alzato anche Astolfo. Come ogni mattina si recò in bagno per le faccende mattutine, si guardò nello specchio e salutò con un sorriso il suo amico Oflotsa. Con la bocca già piena e masticante, il criceto gigante disse ad Astolfo: “Hai un ospite”
Dove?”
Lì, nel lavandino!” indicò Oflotsa.
Astolfo guardò nel lavandino e vide un ragnetto dalle zampe un po’ allungate che cercava inutilmente di risalire verso il bordo del lavandino, probabilmente per andarsene da quel posto così inadeguato per un ragno.
Astolfo cercò qualcosa con cui aiutare quello sprovveduto insetto, ma si rendeva conto che avrebbe potuto mettere fine alla sua vita in men che non si dica.
Qui c’è una sola soluzione” disse poi. E preso un bel respiro soffiò con grande forza verso il ragno.
Uaaah!” urlò Marango mentre di sentiva spazzato via da una gran folata di vento. E urlò ancora di più quando si rese conto che stava precipitando nel vuoto. Gli bastò comunque molleggiare bene sulle sue lunghe zampe per atterrare senza farsi del male.
Uau! L’incubo sembra finito” si disse cercando in tutta fretta di tornare all’aria aperta.
Appena trovò la giusta via, si mise in cerca di un buon posto per fare una bella ragnatela, aveva fame e quindi doveva sbrigarsi.
Oh Marango!” urlò Wendy che l’aveva visto da lontano “Com’è andata la... vacanza?” chiese titubante notando l’aria un po’ irritata del ragno. Marango restò a guardarla a lungo, tentato di fare colazione a base di formica. Poi sbottò: “Un disastro! Un vero disastro!”
Che è mai successo mio buon amico?” chiese Wendy.
Mio buon amico un corno!” gridò di nuovo il ragno “Era un posto talmente liscio che non riuscivo a fare due passi! Anzi, ci riuscivo, ma poi scivolavo sempre nel punto più basso!”
E come hai fatto ad uscire?” domandò la formica con grande curiosità.
E’ stato il vento! Non fosse stato per quello sarei rimasto là! Per l’eternità!” urlò furioso Marango e allontanandosi continuò: “Il vento...capisci? Sarei morto! Un soffio! se no...stecchito sarei!”
Ma che amico ingrato!” si disse Wendy “Tu ti fai in quattro perché viva nuove esperienze! E poi? E’ forse colpa mia che non è andato tutto per il meglio? Tze!”
Qualche giorno dopo i due insetti si incontrarono di nuovo. Appena si videro, si fermarono a distanza, si guardarono con musi ostili senza muovere un altro passo. Passò di là un bruco che, vedendo quella scena, si fermò a guardare perplesso: “State facendo un duello o giocate alle belle statuine?” chiese ad un certo punto.
Fatti gli affari tuoi!” dissero all’unisono Wendy e Marango.
Screanzati!” disse offeso il bruco riprendendo la sua strada.
Formica e ragno, dopo aver seguito con lo sguardo quel ficcanaso che se ne andava, si guardarono di nuovo, ma dopo neanche un attimo non riuscirono più a trattenere le risa. “La settimana bianca!” diceva Marango continuando a ridere.
Il vento salvatore!” ribatteva Wendy con le lacrime agli occhi per le risate.
Ne parlarono ancora di quella vacanza sul bianco lavandino scivoloso, e ogni volta che la raccontavano era come riviverla in quel momento: loro due ridevano come pazzi, chi li ascoltava invece pensava che pazzi lo erano sul serio.

L’uomo che non sapeva raccontare le storie

C’era una volta un uomo che ripeteva in continuazione di non sapere raccontare le storie. Chi gli chiedeva di raccontargliene una, in particolare i bambini, poteva ricevere una risposta di questo tipo:
“Una storia? Ma io non sono un parlatore, il solo pensiero di dover mettere insieme un sacco di parole per raccontare qualcosa che abbia un principio e una fine, mi fa venire prurito dappertutto. E poi non ho molta memoria, non ricordo nemmeno le barzellette; e se per puro caso comincio a raccontarne una non mi ricordo mai qual è la battuta finale. Figurati che tutti i giorni devo scrivere su un biglietto quello che devo comprare e se penso adesso a quello che ho appena comprato alla bottega… non me lo ricordo, dovrei aprire la borsa e guardare cosa c’è dentro. Per fare un altro esempio, quando arriverò a casa, dopo aver parlato con te, io non mi ricorderò più di averti incontrato e di averti detto che non so raccontare le storie. E’ come se la mia memoria non funzionasse bene, o meglio, sembra non funzionare affatto; forse c’è qualche ingranaggio che non gira a dovere, ci vorrebbe qualcuno che mi aprisse la testa e vedesse cosa c’è che non va”
Ed ecco che nel frattempo si avvicina una mamma con i suoi due bambini…
“Io sono invidioso” continuava l’uomo che non sapeva raccontare le storie “di quelle persone che riescono a raccontare per filo e per segno che cosa hanno combinato alle dieci del mattino in un giorno di luglio di dieci anni fa. Come fanno a ricordarsi tutto così bene? Io potrei aver fatto di tutto, anche essermi fermato come adesso a parlare con qualcuno; oppure potrei essere caduto perché non ho fatto caso che un signore davanti a me ha appoggiato in terra la sua valigia proprio davanti ai miei piedi. Eh, eh, eh! Vi immaginate quante risate si sarebbero fatti quelli che erano lì intorno ad osservare la scena?”
Ed ecco che anche una maestra e i suoi alunni si fermano ad ascoltare…
“Non riesco nemmeno a capire come facciano a scrivere delle storie tanto lunghe e complesse quelli che scrivono i romanzi… i gialli…con tutti quegli incroci di persone… e poi le commedie con tutte quelle battute, le facce strane, le situazioni… Ma dov’è che vanno a trovare tutte quelle idee che riempiono centinaia e centinaia di pagine? A me si scioglierebbe il cervello! Dico io, quando hai detto che uno come me è uscito la mattina per fare la spesa, ha incontrato degli amici che gli hanno chiesto di raccontargli una storia e che lui ha risposto che non era capace e poi se n’è andato a casa sua…cosa vuoi dire di più? Certo, potrebbe raccontare quello che vi ho risposto parola per parola, ma non credo che la gente abbia voglia di star qui ad ascoltare quello che io ho da raccontare… Tanto più che non ho niente da raccontare, non vi sembra?”
Dopo un po’ si fermano ad ascoltare quattro giovani studenti…
“Sentiamo un po’” proseguiva l’uomo che diceva di non saper raccontare storie “se a uno di voi chiedessero di punto in bianco di raccontargli una storia… Eh? Che cosa raccontereste? Eh? Sareste anche voi un po’ sorpresi e increduli che chi ti incontra possa pensare che si è capaci di raccontare una storia”
E anche due nonnini si fermano a sentire…
“La mia mamma era davvero molto brava a raccontare le storie, a volte mi raccontava per ore, ore e ore…” Dopo aver fatto un sospiro al ricordo, l’uomo riprendeva “Ma io non me ne ricordo nessuna, son passati talmente tanti anni che ormai… E poi per raccontare storie ci vuole fantasia, bisogna creare situazioni che incuriosiscano e che tengano sulle spine chi sta ascoltando e che gli faccia venire voglia di ascoltare ancora quello che succede dopo, senza mai stancarsi, e che poi chieda al cantastorie di dirgli presto cosa succede dopo…”
Immaginate quanta gente si fermava ogni giorno ad ascoltare le ragioni di un uomo che è convinto di non sapere raccontare storie e perciò è meglio che neanche inizi…?
No,troppo complicato raccontare storie, non sono la persona più adatta, rischierei di non sapere come continuare, perpoi finire a dire le stesse cose,finirei in men che non si dica e nessuno si divertirebbe…come faccio io a…

domenica 22 aprile 2012

Non ho niente a cui pensare!

“Non ho niente a cui pensare!” - si disse Berto quella mattina, appena sveglio... veramente era così ogni mattina.
“Cosa farò?!” - si chiese mentre si infilava i pantaloni.
“Come passerò la mia giornata?” - piagnucolò tra sé mentre si allacciava la scarpa sinistra.
“Devo assolutamente trovare qualcosa di cui occuparmi!”. E allora si alzò risoluto dal letto e, come ogni mattina, si rivolse a Lilla, sua moglie, dicendole:
“Lilla..., cara..., che ne dici se oggi prepariamo il pranzo in giardino?”.
Lilla, non ancora del tutto sveglia, rispose:
“Non hai ancora fatto colazione e già pensi al pranzo”.
“Be’, sai, così ci organizziamo per tempo” disse Berto.
“Se è una bella giornata, perché no?” disse Lilla quasi più a se stessa che al marito, visto che Berto se ne era già andato.
“Bene” sentì dire Lilla da Berto in cucina “di che padelle hai bisogno per l’evento?”
“Evento?” - si chiese Lilla mentre usciva dalla camera da letto. “Di che evento stai parlando?”
“Preparare il pranzo in giardino” rispose Berto con aria innocente.
“Tu... vorresti che io mi mettessi a cucinare in giardino?” disse Lilla puntando il suo dito indice prima su Berto, poi verso di sé ed infine alla porta finestra.
“Sì, tu mi dici di cosa hai bisogno e io... te lo porto...” Berto si interruppe di botto, vedendo lo sguardo esterrefatto di Lilla, la quale, dopo un breve istante, disse con voce minacciosamente calma: “Puoi scordartelo!”.
“Ma amore!” riprese Berto con tono implorante “Non è bello, romantico, io e te, tu ed io...?”
“Non se ne parla” lo interruppe Lilla, versandosi il caffè.
“Ma ti aiuto io...” rinforzò Berto.
“Oh sì, grande aiuto mi daresti” rispose Lilla sarcastica “continuando a chiedermi cosa sto facendo lì, cosa sto facendo là, o a suggerirmi quanto fuoco dare sotto le pentole... E poi mi vorresti dire come faccio a cucinare in giardino?”
“Accendo un bel fuoco!” disse Berto entusiasta.
Dopo un brevissimo istante con gli occhi sgranati e la bocca spalancata per l’incredulità, Lilla sbottò sillabando:
“Sco-rda-te-lo!”. E se ne andò in bagno.
“E adesso?” si disse Berto, quasi afflitto dalla reazione di Lilla. “Che faccio tutto il giorno? Mi sento inutile...”.
Dal bagno, quasi intuendo i... pensieri del marito, Lilla disse a voce alta: “Sai che devi fare?”
“Cosa?” chiese Berto.
“Fatti un bel giro in bicicletta, lungo il fiume” propose ironica Lilla.
“Ci sono stato ieri!” ribatté Berto.
“Ed anche l’altro ieri, e ieri l’altro ancora” gli disse Lilla uscendo dal bagno.
Berto la guardò triste.
Lilla per tutta risposta gli si avvicinò, gli fece un ampio sorriso, lo baciò sul naso e poi con lo stesso tono ironico gli disse:
“Magari stavolta puoi pensare di farti un bel bagno, così ti si raffredda il cervello.”
E se ne uscì canticchiando per andare a far la spesa.
Berto invece tornò subito a pensare a come occupare la sua giornata e quindi decise che era venuto il momento di togliere le erbacce dal giardino.

L'allocco

“Non sono un allocco...” andava ripetendosi piagnulando Midùn mentre vagava a testa bassa per il bosco.
“Che succede, piccolo uomo?” chiese un nano che lo incontrò per caso.
Midùn, tirando su col naso e guardando di sottecchi, rispose:
“Niente che ti interessi!”
“Oh su, Frasto è qui per aiutarti, non per farsi gli affari tuoi” ribatté il nano.
“Frasto? Ma che razza di nome è?” chiese Midùn alzando gli occhi pieni di lacrime.
“Be’, sempre meglio che essere chiamato... allocco” disse Frasto con voce benevola.
E Midùn scoppiò di nuovo in lacrime.
“Su su, piccolo mio!” disse consolatorio il nano “Non è così grave!”
“Che ne sai tu?” gridò Midùn cercando di allontanarlo.
“Mi vuoi raccontare chi e perché ti ha dato dell’allocco?” chiese Frasto mettendosi le mani ai fianchi.
Dopo qualche altro lieve singhiozzo Midùn decise di confidarsi:
“E’ stato mio fratello... lui mi racconta sempre quello che fa, chi incontra, cosa ha visto, ma tutte le volte” disse il bambino riprendendo a piangere “mi parla di cose che si inventa lì al momento e io ci casco sempre!”
Frasto rimase in silenzio.
“E poi” riprese Midùn “scoppia a ridere e mi dice che sono un allocco!”
Lacrime e lamenti continuarono abbondanti.
“Allora, oggi..., sono andato dalla mia mamma a raccontarle tutto e anche lei...” Non riuscì a finire la frase perché esplose di nuovo in un pianto disperato.
“Ti ha detto che sei un allocco” disse con voce sconsolata Frasto.
“E poi... e poi... ho deciso di andare dal mio papà...” continuò Midùn “non mi ha neanche lasciato finire e lui...”
“...ti ha chiamato allocco?” chiese il nano.
“No...” sussurrrò il bambino.
“Ah, meno male; e cosa ti ha detto allora?”
“Che sarò un allocco per sempre!” disse Midùn continuando a piangere e ad urlare.
Frasto lo lasciò sfogare e quando lo vide più calmo gli chiese:
“Ma tu sai cos’è un allocco?”
Midùn lo guardò perplesso.
“L’allocco è un uccello” disse il nano con tono misterioso “e non un uccello qualunque, sai?”
“Ah no?” chiese Midùn incuriosito.
“E’ un rapace” disse Frasto.
“Un che?!” ribatté il bambino.
“Un rapace, è della famiglia dei gufi e delle civette, ed è un uccello cacciatore”
“Davvero?” chiese Midùn sbalordito.
“Eh già! E caccia soprattutto di notte!” aggiunse Frasto con un gran sorriso.
“Allora...” accennò il piccolo con lo sguardo illuminato.
“Allora” continuò il nano “un animale così, che vede le sue prede nel buio della notte e poi le cattura, puoi dire che non sa distinguere le bugie dalla verità?”
“Certo no!” disse Midùn con voce gaia.
“Anzi” disse Frasto con enfasi “chi ti dà dell’allocco non sa di cosa parla e così finisce per farti un complimento!”
“Sììì!” urlò il bambino tutto contento e prendendo il nano per le mani si mise a saltellare con lui a dritta e a manca.
“Sono un allocco! Sono un allocco!” cominciò a canticchiare Midùn e, dopo aver salutato Frasto con un abbraccio, si diresse verso casa correndo a braccia aperte, come fossero le sue ali.

martedì 3 aprile 2012

Daniel Lo Cuba

C’era una volta un certo Daniel Lo Cuba, il quale, contrariamente a quanto si potrebbe pensare d’impulso, non viveva nell’isola rossa, né c’era mai stato. Lui era un cittadino rispettabile di una cittadina rispettabile, ad una rispettabile distanza dalle città più grandi e più famose. Tanto più rispettabile, diceva Daniel, proprio perché lontana da quelle città.
Sento che vorresti sapere quale sia il nome di quella cittadina...
Già!
Il punto è che io, sinceramente, non me lo ricordo proprio. Daniel me l’ha detto almeno una trentina di volte, ma io, puntualmente, tornavo a chiederglielo e a richiederglielo e a richiederlo... Ciò che ricordo meglio è che lui ci stava bene, gli piaceva la gente, le piazze, i vicoli... Nonostante gli fossero capitate molte buone occasioni per andarsene in capo al mondo a fare ciò che avrebbe ritenuto meglio, non si è mai mosso da... Eh! Proprio non ricordo.
Per chi non lo conosceva bene, Daniel Lo Cuba era una specie di fannullone scansafatiche e perdigiorno come pochi ce ne sono al mondo. “Va in giro tutto il giorno, scrive qualche riga su un quaderno, sta seduto per ore senza far nulla... Comoda la vita così!” Questo dicevano di lui le persone che non lo conoscevano. E queste erano le frasi più gentili.
Mi dirai: sicuro che gli piacesse la gente della sua città?
Ne sono più che sicuro, perché al di là di tutto lui apprezzava la loro sincerità, la schiettezza delle loro opinioni. Per questo non si arrabbiava mai; di fatto nessuna delle persone che non lo conoscevano bene gli ha mai fatto del male.
Comunque i suoi concittadini avevano ragione, era lo stesso Daniel a sostenerlo: lui era un fannullone scansafatiche e perdigiorno, un lavoro serio e sicuro non l’avrebbe mai intrapreso. A lui piaceva vivere così.
Lo so a cosa stai pensando, la tua domanda è lecita: di cosa viveva? Come faceva a mantenersi? Sinceramente non l’ha mai voluto dire neanche a me che l’ho frequentato per quasi tutta la vita e posso dire di conoscerlo molto bene. Ogni volta che cercavo di affrontare l’argomento lui rispondeva: “Non sono affari tuoi!”. Non era nemmeno possibile capire quali fossero le sue disponibilità, se era ricco, se era povero... Vestiva in modo semplice, guidava - raramente - una vecchia utilitaria, viveva in una casa ben tenuta, non era denutrito, non era troppo grasso: “Ho quel che mi serve” ripeteva ai curiosi sospettosi e forse invidiosi della sua situazione di vita. Altrimenti perché fare domande del genere?
“Il senso della mia vita è esserci” questa era la filosofia di Daniel Lo Cuba “Di più a che serve?”
“Ci sarà pur qualcosa” gli obiettavo io “che ti piacerebbe fare e che ti darebbe maggior soddisfazione!”
“...No”
Disarmante.
“Ma... quello che scrivi sul tuo quaderno” gli chiedevo ogni tanto “perché non lo pubblichi?”
“Perché non credo che interessi alla gente” rispondeva lui “Anche se...”
“Anche se...?” ripetevo io, sperando sempre che fosse la volta buona.
“...in verità è a me che non interessa far leggere i miei scritti” concludeva lui. Ed ogni parola in più diventava inutile.
Daniel Lo Cuba era una persona da prendere così com’era, senza mezzi termini: o lo si amava o lo si disprezzava. Una cosa era certa: chi non lo conosceva bene ne poteva dire di tutti i colori ed avere anche ragione; ma non avrebbe mai potuto fare a meno della sua presenza in città, perché, se per Daniel Lo Cuba il senso della vita era esserci, per i suoi concittadini esprimere la loro opinione avversa su di lui era il solo modo per sostenere che era la loro vita ad avere un senso, non quella di uno pseudo-scrittore sfaccendato che mai avrebbe fatto leggere il contenuto del suo prezioso quaderno a chicchessia.
E di questo Daniel Lo Cuba, uomo tutt’altro che intelligente per chi non lo conosceva bene, godeva grandemente.