venerdì 30 marzo 2012

Il fascino del non sapere


La vedevo uscire ogni sera, verso le dieci, alla guida della sua decapottabile nera. Me ne  accorgevo perché lo studio veniva illuminato dalle luci bianche della retromarcia e dal rosso intenso degli stop: ero solito leggere qualcosa prima di andare a letto e accendendo solo la lampada vicino al divano, il resto della stanza restava in penombra, per cui non era difficile notare illuminazioni che provenivano dall’esterno.
Non ho mai avuto l’occasione di incontrare quella donna, non so neppure come si chiamasse. Certo che abitare a cinquanta metri da qualcuno e non sapere neanche il suo nome...
Era una bellissima donna, alta, dal fisico longilineo; aveva un’eleganza misurata, nei movimenti, nei gesti, sembravano rallentati; lo sguardo era sempre un po’ triste...
Chissà perché una bella donna ha un certo non so che di attrattiva in più se è triste... O forse attira me...
Ricordo che aveva una sorella, più piccola, ma altrettanto bella, sembrava lei con qualche anno di meno. Mi chiedo come fosse la madre... o avrà preso dal padre?
Ogni volta che la vedevo uscire mi chiedevo se fosse per lavoro o per divertimento, perché ogni sera alla stessa ora... è un appuntamento fisso.
Anche durante il giorno la vedevo, il più delle volte mentre rientrava a casa; lasciava l’auto nel vialetto, che dal mio studio potevo vedere chiaramente. Quando scendeva dall’auto volgeva lo sguardo verso la mia finestra, come se volesse ricambiare le mie attenzioni. In effetti non sapevo niente di lei, ma mi ci ero affezionato; e forse mi ci ero affezionato proprio perché non sapevo niente di lei.
Ci si preoccupa sempre di una bella donna che esce ogni sera verso le dieci... un uomo si preoccupa; una donna sarebbe già saltata alle conclusioni, soprattutto una moglie. Io sono tranquillo da questo punto di vista: non sono sposato, né sono fidanzato, e chissà mai se avrò una compagna.
Dicevo che ogni volta che la vedevo arrivare avevo l’impressione che volgesse i suoi occhi verso di me: fantasie maschili? Be’... Mi piaceva immaginare che ci fosse una certa reciprocità, come un’amicizia a distanza, o un incrocio intenso di sguardi con qualcuno che si incontra per la strada.
Il fascino del non sapere...
La curiosità è una peculiarità umana, ma per alcuni - molti - ha maggior forza il desiderio di soddisfarla, di non avere dubbi sul mondo circostante. Il punto è che molti - troppi - piuttosto che avere dubbi su una persona considerano reali le proprie ipotesi o le opinioni espresse dagli altri.
Però penso sia possibile vivere nel dubbio, in quella incertezza che fa dire ‘non so’ senza l’ansia di sapere; e fino al momento di scoprire qual è la verità, sempre che ciò sia possibile, potersi godere quello stato di... indeterminatezza, che lascia aperta ogni possibilità; in fondo è il presupposto di ogni ricerca.
Anche perché, se mi convincessi della fondatezza delle mie idee o dessi semplicemente adito a ciò che altri dicono su una persona o su un evento - e figurarsi riguardo a una bella donna che esce ogni sera verso le dieci con la sua decapottabile nera - potrei considerare una persona o una qualsiasi realtà col necessario distacco per lasciarmi poi stupire da un’evoluzione che potrebbe andare ben al di là di ogni mia aspettativa?

martedì 27 marzo 2012

Il Generale Inverno

Dopo una lunga battaglia, durata qualche settimana, il Generale Inverno riuscì finalmente a riprendersi il potere: nessuno lo poteva sconfiggere. Era successo che l’Ammiraglio Autunno aveva deciso di prendersi un po’ del tempo del regno d’Inverno, perché si era stancato di poter comandare solo per un periodo così limitato...
Tutto era cominciato quando le Quattro Stagioni Regnanti cominciarono a non andare più d’accordo tra loro. Molto tempo prima, forse all’inizio dei tempi, i quattro avevano deciso di vivere insieme secondo una semplice regola: per la pace e l’uguaglianza di tutti, ogni stagione avrebbe regnato a turno per un periodo di tre mesi, dopodiché, nelle date concordate, avrebbe consegnato lo scettro di comando alla stagione successiva secondo l’ordine stabilito.
Invece, da un certo punto in poi, ognuno di loro aspirò a diventare più importante degli altri e cominciarono i dispetti reciproci: la Granduchessa Estate, fingendo di scordarsene, consegnava lo scettro all’Ammiraglio Autunno sempre più tardi; questi sentendosi tremendamente offeso non riusciva a far altro che piangere per giorni e giorni; il Generale Inverno si divertiva a volte a lanciare un po’ di neve alla Principessa Primavera, la quale invece, sentendosi disorientata, ogni anno continuava a cambiare il suo stile di regno, a volte felice e pieno di colori, a volte intollerante e piagnucoloso, a volte copiando lo stile di altre stagioni.
Erano ormai parecchi anni che le Quattro Stagioni Regnanti non andavano più d’accordo e le cose non fecero che peggiorare.
Ci fu un anno in cui la Granduchessa Estate riuscì a strappare lo scettro alla Principessa Primavera un mese prima del dovuto e lo consegnò all’Ammiraglio Autunno parecchio tempo dopo la data prevista. E oltretutto chiese a Messer Sole di illuminarla e scaldarla per tutto il tempo, tenendo lontano i Corpi Speciali di Nubi e Temporali.
Poco tempo dopo l’Ammiraglio Autunno, quasi a volersi rifare del periodo maltolto, decise di prolungare il suo turno di regnante, schierando a difesa dello scettro di comando le sue migliori guardie, le ormai temute Miti Temperature che resistettero per più di un mese.
Il Generale Inverno era preoccupato, perché oltre all’attacco dell’Ammiraglio, doveva vedersela anche con la Principessa Primavera, che, non volendo restare a guardare, fece di tutto per iniziare il suo regno prima del tempo, cercando oltretutto il modo di prendersi lo scettro direttamente dalle mani dell’Ammiraglio Autunno.
Ma il Generale Inverno era una stagione forte, dura e nonostante le difficotà, ottenne ciò che gli spettava. Certo, non sapeva quanto sarebbe durata, ormai metà del suo tempo se n’era andato e chissà cosa avrebbe escogitato Primavera. Ma intanto poteva rilassarsi un po’ e finalmente vestirsi tutto di bianco, il suo colore preferito e simbolo della sua casata: Madama Neve, la sarta di corte, faceva ogni anno un eccellente lavoro.
Un giorno i Quattro Regnanti decisero che era venuto il momento di incontrarsi per parlare, per cercare di capire perché stesse succedendo tutta quella baraonda. Dopo un bel po’ di tempo che stavano discutendo, pensarono che fosse giunto il momento di chiedere un consiglio a Messer Sole, perché, avendo seguito per tutto il giorno le loro discussioni dall’alto della sua postazione, poteva esprimere un pensiero al di sopra delle parti.
Messer Sole dopo averci pensato un po’, disse così:
“Che volete che vi dica? Non son fatto per suggerire cosa è bene fare per risolvere i vostri problemi. Il mio compito è riscaldare e illuminare dal punto in cui mi trovo. Io non posso sapere cosa sia meglio per il vostro mondo. Secondo me dovreste parlare con i vostri sudditi, perché sono loro che vi hanno portato a questa situazione”
“Che vorresti dire, Messer Sole?” chiese curiosa Primavera.
“Che siamo stati presi per il naso?” aggiunse Inverno.
“Eh sì!” ribatté Sole con un sorriso amaro “Se ci pensate bene, vi accorgerete che sono stati i vostri sudditi a mettervi in testa certe idee!”
“Facci un esempio, Messer Sole” disse Estate.
“Per esempio ci sono molti che amano più il caldo che il freddo” disse il luminoso Sole “oppure altri che preferiscono vedere sempre me piuttosto che Donna Pioggia”
“Se posso fare un altro esempio” continuò Messer Sole dopo una breve pausa “ci sono molti convinti che il loro sistema di vita sia il migliore e fanno di tutto per convincere tutti gli altri che anche a loro conviene godersi la vita, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze”
Dopo aver ascoltato queste parole i Quattro Regnanti rimasero pensierosi. Ad ognuno vennero in mente altri esempi al riguardo, progetti e sviluppi che all’inizio parevano fatti nell’interesse di tutti e che invece portavano differenze fra i popoli, nascevano dal desiderio di primeggiare e di togliere di mezzo quelli che potevano dare fastidio…
“Allora…” disse Sole ad un tratto “pensate che sia utile sentire cos’hanno da dire i vostri sudditi?”
“Sì, ma ci vorrebbe un’eternità per sentirli tutti! Sono miliardi e miliardi di persone!” dissero quasi in coro le Stagioni.
“Potreste mandare per il mondo dei messaggeri perché vengano nominati dei rappresentanti che possano parlare a nome di tutti” suggerì Messer Sole.
“E come si farebbe?” chiese Principessa Primavera.
“Indicendo delle elezioni!” rispose il Sole.
“Giusto!” esclamò la Granduchessa Estate “Così dovremmo ascoltarne solo qualche migliaia e forse troveremmo una soluzione in meno tempo!”
“Sì, sarebbe utile in breve tempo” sottolineò Generale Inverno “Perché le cose per me potrebbero mettersi molto male!”
Le Quattro Stagioni ringraziarono Messer Sole dei suoi suggerimenti e cominiciarono ad organizzare l’invio dei loro messaggeri in tutti i continenti.
Dopo un po’ di tempo vennero a sapere che tutti i rappresentanti erano stati nominati, quindi poterono chiamarli per ascoltare le loro osservazioni e valutare le proposte per migliorare le cose.
Passò ancora molto tempo prima che i Quattro Regnanti avessero ascoltato tutto quello che ogni rappresentante aveva da dire; ci furono giorni in cui temettero di dover ascoltare alcuni degli eletti per il resto della loro vita, tante erano le cose che avevano da dire.
Quando ebbero finito di ascoltare tutti, le Stagioni si riunirono un po’ sconsolate.
“Ci fosse stato qualcuno che avesse dato lo stesso suggerimento…” si lamentò l’Ammiraglio Autunno.
“E quante motivazioni hanno tirato fuori altri per dire che la migliore idea era la loro!” sbuffò la Granduchessa Estate.
“Perché? Erano forse pochi quelli che preferivano non immischiarsi o che preferivano che le cose rimanessero come sono?” chiese stizzito il Generale Inverno.
Visto che la Principessa Primavera restava con lo sguardo basso senza dire una parola, gli altri tre le chiesero in coro: “Tu che dici Primavera?”
“Io… non ce la faccio più!” disse la Principessa quasi piagnucolando “E nemmeno voglio più farmi strappare lo scettro dalla Granduchessa, né cercare di portarlo via al Generale e neanche vedere l’Ammiraglio che vuole rifarsi dei torti subiti!”
“Qui c’è solo una cosa da fare!” disse deciso il Generale Inverno.
“E cosa?” chiesero gli altri tutti insieme.
“Rivedere tutte le idee, capire quali si assomigliano e poi risentire ancora i nostri amati sudditi, fino a che capiremo esattamente la giusta via da percorrere” sentenziò il Generale.
“Risentirli ancora?” chiese la Granduchessa.
“Non finiremo mai!” disse l’Ammiraglio scuotendo la testa.
Primavera ricominciò a piagnucolare.
“Su su!” incitò Inverno “Coraggio! Qui non c’è più da perdere tempo! Dobbiamo aiutare gli abitanti del nostro regno a trovare l’idea comune che ci faccia cambiare atteggiamento”
“Potremmo farlo lo stesso senza chiedere a loro…” suggerì Autunno.
“Se è per i loro atteggiamenti che noi siamo così dispettosi gli uni con gli altri” sostenne il Generale Inverno “per migliorare le cose è necessario che siano loro a cambiare il loro modo di fare”
“E se non ci riuscissimo?” chiese incerta Primavera.
“La battaglia sarà lunga” rispose Inverno “ma non ci dobbiamo arrendere; se sapremo tener duro, qualche risultato lo otterremo, ve lo garantisco!”
“Speriamo…” dissero in coro gli altri con tono titubante.
“Sì! Certo! Ecco cosa ci vuole: speranza!” affermò il Generale “Ma la speranza ha bisogno che noi ci diamo da fare. E anche i nostri sudditi dovranno darsi molto da fare per far tornare il nostro mondo un posto dove vivere felici e in pace! Perciò… al lavoro!”

venerdì 23 marzo 2012

Artena

Si diceva in paese che fosse una strega buona, molti non si fidavano di lei, ma Artena era solamente una ragazza più sensibile della media.
‘Be’, anche un po’ di più oltre la media, visto che sapeva prevedere gli eventi'.
Sì, è vero, ma questo accadeva solo attraverso i suoi disegni. Dire che avesse un qualche potere divinatorio mi sembra eccessivo. Tanto più che non aveva controllo su questa sua facoltà e sempre si era rifiutata di rispondere a una qualsiasi richiesta di previsione del futuro.
‘Ma l’uragano l’aveva previsto!’
Solo perché due ore prima aveva dipinto una tromba d’aria non vuol dire che l’avesse prevista, sicuramente aveva sentito qualcosa, ma non in modo consapevole. Lei non pensava di avere un potere particolare e quasi non credeva a chi le faceva notare alcune... coincidenze.
“Io dipingo, non decido neanche cosa” era solita dire “inizio da uno schizzo e poi il quadro prende forma quasi da sé”
Ad Artena piaceva molto dipingere, era il suo canale privilegiato per esprimere il suo mondo interiore, quello più profondo, inconscio. Certo i risultati lasciavano senza parole, ma in ogni casa c’era almeno un suo dipinto. Era innegabile che Artena fosse una persona con un grande dono.
Io la vidi per la prima volta un giorno di maggio, lungo il fiume che divide la valle esattamente in due, come le pagine di un libro. Stava sulla sponda opposta, aveva un grande cappello e davanti a sé aveva posto un cavalletto con una tela; naturalmente stava dipingendo.
Ad un certo punto lei smise di dipingere e guardò verso di me.
‘Non si sarà mica accorta che la stavo guardando!?’ pensai.
Lei alzò un braccio e mi salutò. Forse intuì il mio stupore e la conseguente titubanza a contraccambiare il saluto, perché, quasi subito, Artena si alzò in piedi, si portò proprio vicino alla riva e mi salutò con entrambe le mani. A quel punto non ebbi dubbi, stava salutando me e quindi risposi al saluto.
Poi, con il gesto della mano mi invitò a raggiungerla; cercai di farle notare in qualche modo che il ponte più vicino era qualche chilometro più a monte. Lei fece il gesto di nuotare; al che io - non ci potevo credere! - le feci segno che non sapevo nuotare.
Allora lei fece spallucce e cominciò a risistemare le sue cose per andarsene.
Il giorno dopo, di buon mattino, decisi di andare ancora sul fiume: non nascondo che mi sarebbe piaciuto rivedere Artena.
Lei c’era, eccome! Solo che stavolta la trovai sulla mia sponda...
Appena arrivai nei pressi della riva lei, con pennello e tavolozza tra le mani, si girò verso di me, mi fece un gran sorriso e con tono gaio mi disse: “Buongiorno!”
“Buongiorno...” risposi un po’ impacciato.
“Bella giornata per un gita sul fiume, non trova?” disse lei guardandosi intorno. E dopo un altro sorriso riprese a dipingere.
Superato l’imbarazzo di trovarmela davanti, così accogliente ed enigmatica allo stesso tempo, mi avvicinai un po’ di più a lei.
“Cosa dipinge?” le chiesi.
“Sto ultimando il quadro che ho iniziato ieri” rispose lei senza togliere lo sguardo dalla tela.
Appena vidi il soggetto del dipinto rimasi quanto meno sbigottito. Era la scena del giorno prima: un fiume, una donna che dipinge su una riva e un uomo dall’altra parte che saluta con entrambe le mani.
“E’ sicura... di averlo iniziato ieri?” le chiesi incerto.
“Che domande?” rispose lei un po’ stupita “Certo che ne sono sicura!”
“Ah!” dissi io.
Dopo un lungo silenzio Artena posò tavolozza e pennello e disse:
“Ecco! Finito! Qualche minuto che si asciughi e poi può portarselo via”
“Come?” chiesi basito.
“Non lo vuole più?” mi chiese lei.
“Cosa?” feci io.
“Ma il dipinto! Non è qui per quello?” ribatté lei con sguardo sorpreso.
“Ma... io veramente... non pensavo...”
Mentre dicevo questo mi accorsi che il dipinto era cambiato: il fiume era lo stesso, ma ora la donna che dipingeva era sull’altra riva e stava consegnando il quadro all’uomo che in precedenza la salutava.
“Ma... è cambiato?” le dissi titubante.
“Cosa?” chiese lei.
“Il quadro” dissi io.
“Dice?” rispose lei, osservando la tela con la testa reclinata di lato “Mmm... direi di no”
“Come no?” ribattei io “Prima era diverso!”
“Va bene... Se lei ritiene sia diverso...” disse Artena porgendomi il dipinto “d’accordo. Ma d’altronde, si può dire che ciò che vediamo... o sentiamo... guardandoci intorno sia sempre lo stesso?”

martedì 20 marzo 2012

L’angelo Miro


L’angelo Miro aveva proprio le tipiche caratteristiche degli angeli che si vedono in quadri e affreschi di chiese e cattedrali: aveva gli occhi azzurri, i capelli biondi e boccolosi e una naturale candida aria da bravo ragazzo. In effetti l’angelo Miro era un bravo ragazzo, si può forse dire diversamente di un angelo? Fatte le dovute distinzioni tra regole ed eccezioni, in linea di massima no.
Miro però - come dire? - faceva storia a sé per quel che riguarda gli angeli, perché, nonostante l’atteggiamento dolcemente integro e sicuro di sé - qualcuno in verità diceva un po’ spavaldo - sotto sotto era molto timido e quindi era spesso agitato e nervoso. Ogni missione che gli era affidata lo metteva in uno stato di tensione tale da stremarlo, tanto che non era difficile trovarlo addormentato su qualche nuvoletta sperduta dove si era rifugiato per studiare il caso di cui si doveva occupare.
Miro faceva parte della corale “Voci di Paradiso”, sia come solista (quante ansie!), sia come musicista (se non panico!). Aveva una bellissima voce, era ben intonato e le sue interpretazioni... a dir poco celestiali. Anche come musicista se la cavava molto bene: con la sua lira riusciva a dare ai canti quel tocco personale che li rendeva unici. E non erano in pochi a dire questo.
Non è che fosse ben visto da tutti i suoi colleghi, soprattutto dai più anziani, perché Miro... si era innamorato del rock’n’roll: come non capirlo dopo un’eternità di musica celeste! Ogni tanto lo si sentiva in lontananza cantare a squarciagola da qualche cucuzzolo sui monti più alti. In effetti a Miro era stato dato il permesso di suonare il rock’n’roll, ma ad una condizione: che la quiete del Luogo Santo non fosse disturbata da ritmi frenetici e suoni assordanti. Quel giorno fu tale la sua gioia che si permise, per la prima ed ultima volta, di lasciare la sala dei colloqui alla velocità della luce; ne chiese scusa col suo primo pezzo rock che aveva intitolato “Come fossi senza ali”. Ah già! Miro era anche autore e compositore, e oltretutto riscuoteva un certo successo con le sue canzoni: lui non l’ha mai saputo, ma c’erano frotte di angeli che si nascondevano fra le nubi o mimetizzandosi tra i ghiacciai per ascoltare le sue composizioni; al solo pensiero, timido com’era, gli sarebbe venuta l’orticaria.
Il ritmo della sua vita, come si può intuire, era a dir poco frenetico; fra missioni, prove, studio, rock’n’roll e pisolini inattesi...non è che gli restasse molto tempo. Ma quel poco che gli restava lo passava in compagnia di un vecchio angelo ormai a riposo, che gli raccontava le sue avventure di angelo custode fra gli uomini. Ogni volta Miro restava incantato, con lo sguardo perso fra le nuvole, ripensando a quanto aveva ascoltato; tanto che il vecchio amico doveva chiamarlo quattro, cinque, anche sei volte perché si riavesse da quello stato sognante e ritornasse ai suoi impegni quotidiani. “Tu sarai un grande angelo!”, gli diceva l’amico, sorridendogli. “Lo spero tanto”, rispondeva Miro con aria preoccupata. Allora, Simatro, questo era il nome dell’altro angelo, gli prendeva la testa fra le mani e gli diceva: “Il cuore grande ce l’hai, l’impegno ce lo metti, devi solo trovare l’equilibrio”. “E dove lo trovo?”, ribatteva Miro. “Lascia che sia lui a trovare te e quando meno te lo aspetti tutto ti diventerà chiaro”. Dopoquesto invito di Simatro, per la verità un po’ enigmatico, Miro faceva un gran sospiro, abbracciava dolcemente il vecchio amico e tornava alle sue faccende con una calma che ogni volta lo meravigliava, perché nemmeno il suo amore per la musica riusciva a fargli sperimentare una pace di quel genere.

sabato 17 marzo 2012

Salici


C’erano, sulla riva del torrente che scorreva a fianco della strada del lago, due salici piangenti; il più vecchio, si chiamava Salix e l’altro, un po’ più giovane, Selis. Già da alcuni anni vivevano fianco a fianco, sfiorando le foglie l’uno dell’altro.
A metà pomeriggio di un giorno di fine estate il salice più anziano si  rivolse a quello giovane con una voce un po’ stentata: “Ehi!...tu… ehi… come si chiama?...Ehi!”

Ma il giovane salice sembrava non sentire. Dopo qualche istante di pausa per riprendersi dalla chiamata, Salix ci riprovò, cercando di alzare la propria voce: “Ehi… tu… mi senti?” Nessuna risposta. “Il più anziano sono io” si disse l’albero “ma quello sordo è lui! Eh eh eh!”

Così, dopo un’altra breve pausa, gonfiò ben bene i suoi rami cadenti e poi urlò più che poté: “Al fuocooo!!”
Il salice più  giovane si svegliò di soprassalto e preso dal panico cominciò agridare: “Oh no! Aiuto! Pompieri! Dell’acqua! Aiuuuuto!” Solo dopo si accorse che del fuoco non c’era neanche l’ombra. Allora il vecchio salice, facendo finta di niente, chiese sorpreso: “Ehi…che t’è preso? Un incubo?”
“Eh… sì…può darsi…” rispose Selis quasi singhiozzando.
“Ma secondo te” chiese d’improvviso Salix con tono affaticato “mi stavo chiedendo: perché secondo te ci chiamano salici piangenti?”
“E che cosa ne so io?” ribatté l’altro salice sbadigliando e scuotendosi un po’.
“Ma…pensavo che essendo giovane…” iniziò a dire l’anziano.
“Cosa?” accennò Selis, sentendo che l’altro si era fermato. E visto che non riprendeva lo chiamò con voce preoccupata: “Ehi!” Niente. Ci riprovò con un po’ più di voce: “Ehi!” Nessuna risposta. Cercò allora di allungare i suoi rami verso l’altro per scuoterlo e poi gridò “EHI!”
Salix trasalì: “Oh! Che c’è? Che succede?”
“Mi stavi dicendo ‘pensavo che essendo giovane’…” disse l’altro albero facendo un sospiro “e poi non hai più detto niente”
“Io?” chiese l’anziano salice. E dopo un attimo di riflessione riprese con voce un po’ trascinata: “Ah sì! Ora ricordo! Visto che non sai perché ci chiamano salici piangenti, volevo dire che pensavo che essendo giovane conoscessi qualcosa in più di me del mondo”
“Be’, io sono sempre rimasto qui come te” rispose il giovane salice “E poi non sono il tipo che si fa domande del genere, io”
“La mia era semplice curiosità, un pensiero che mi è passato per le fronde e non se n’è più andato. Va be’…” concluse Salix.
Il pomeriggio finì e i grilli iniziarono il loro concerto notturno.
Il mattino dopo, appena il sole cominciò ad illuminare tutte le cose, i due salici cominciarono a stiracchiare i loro rami, che erano talmente lunghi da arrivare a toccare l’acqua del torrente. Il salice più anziano indugiò con i rami nell’acqua, lasciando che la corrente li facesse dondolare dolcemente. Il giovane, dal canto suo, faceva lo stesso e dopo qualche momento disse: “Mi sono sognato di essere interrogato da una quercia enorme che voleva confessassi di sapere perché ci chiamano salici piangenti”
“Oh, nottataccia, allora?” chiese placidamente Salix.
“Già” rispose Selis sbadigliando “Io più che piangente mi sento sempre stanco e dormirei sempre”
“Non dirlo a me” disse il salice anziano con tono annoiato, continuando a far cullare i suoi rami dall’acqua “Neanche vorrei che questi rami fossero così lunghi e pesassero così tanto”
“Be’, perché non farci chiamare salici affaticati?” propose il salice più giovane.
“Mmm…” fece riflessivo Salix “potrebbe essere un’idea… ma mi sembra di stancarmi ancora di più…”
“Sì, forse è vero” ammise l’altro e poi continuò: “E poi… salice… mi fa venire in mente qualcosa che sale, che va in alto, verso il cielo… I nostri rami, sì, salgono un po’, però poi… scendono”
“Più che scendere” ammiccò l’anziano “cascano!”
“Niente male la tua definizione, vecchio mio!” disse bonario il giovane compagno “Se ‘affaticati’ ti stancava di più, immagino che ‘cascanti’ ti faccia venire le vertigini”
“Ah ah ah, buona questa!” esclamò Salix.
Dopo qualche attimo di silenzio Selis ebbe un sussulto tale che l’altro si spaventò: “Che ti succede?”
“Ho avuto una folgorazione!” disse tutto eccitato il giovane salice.
“E che t’è venuto in mente?” incalzò Salix.
“Ho deciso cosa sono!” annunciò fiero Selis.
Visto che non si decideva a dire cosa aveva deciso, il salice anziano lo incalzò: “E allora?”
“Io da oggi in poi” disse il giovane albero “visto che i miei rami scendono, non sarò più un salice, ma uno scendice!”
“Davvero grandioso!” esclamò il più vecchio “E… uno scendice come?”
“In che senso?” chiese Selis non capendo a cosa alludesse Salix, che subito gli chiarì la sua domanda: “Be’, prima eri piangente; ora come sei?”
“Ci devo ancora pensare” scandì pensieroso il salice più giovane “ma certamente non piangente e nemmeno cascante”
“Che ne dici di…” propose Salix “scendice ridente?”
“Perché no?” disse Selis illuminandosi “Sai che sei proprio un salice intelligente, vecchio mio?”
“No!” ribatté prontamente Salix “Io sono uno scendice intelligente!”

mercoledì 14 marzo 2012

Tra i propri simili

Chissà perché, chissà per come, fra Callan, bruco verde del bosco, e le formiche giganti del monte era nata una grande amicizia, anzi grandissima, talmente grande che Callan probabilmente sarebbe stato ospite della tribù quasi ogni sera. Ma era necessario che tornasse a casa dai suoi genitori, dai suoi fratelli, dalla sua gente. Il tempo  di cenare, dormire e far colazione, ed il bruchetto andava di corsa dagli amici di sempre, ormai si conoscevano... da una vita.
Vi racconterò come si sono conosciuti.
Un giorno Callan, che iniziava a mangiare tutti gli strati delle foglie di cui si nutriva, fu incuriosito da un via vai che avevo adocchiato appena al di là delle felci che delimitavano il territorio della sua colonia. Allora chiese alla sua mamma:
“Chi sono quelli laggiù?”
La mamma, interrompendo il suo pranzo, gli rispose:
“Sono le formiche giganti del monte”
Callan chiese ancora: “E dove vanno tutte così in fila?”
Dopo qualche altro boccone la mamma gli disse: “Vanno in cerca di cibo, e forse adesso stanno tornando alla loro casa per mangiarlo, come dovresti fare tu al posto di parlare tanto”
Il giorno dopo Callan rivide la colonna di formiche che sfilava dietro le felci e non poté fare a meno di chiedere alla sua mamma dove fosse la casa di quegli esseri così diversi.
“Vivono sul monte” gli disse la mamma.
“E dov’è?” incalzò lui “Mi ci porti un giorno?”
“E’ lontano e poi il terreno è tutto su e giù, è faticoso da fare” rispose la mamma.
Dopo qualche giorno, visto che le formiche passavano ancora lì vicino, Callan decise di vedere dove abitavano. Così si mise su un ramo da dove poteva vedere benissimo la colonna marciante e perfino vedere dove si trovava la loro casa. Seguendo con lo sguardo la direzione del loro cammino vide che le formiche ad un certo punto salivano per un monticello di terra e poi si infilavano all’interno di esso attraverso un’apertura non troppo grande.
“Callan” lo chiamò la mamma “vieni a mangiare”
“Vengo” gridò lui sbuffando.
“Mamma. Posso andare a vedere dove stanno le formiche?” chiese un giorno Callan.
La mamma ebbe un sussulto e quasi cadeva dalla foglia che stava rosicchiando.
“No, piccolo mio, non è il caso”
“Perché?” domandò subito il bruchino.
“Perché ti rimanderebbero indietro”
“Perché?” fece di nuovo Callan.
“Perché sei diverso,” disse con tono triste mamma bruco “loro fanno sei passi e tu ne fai uno, loro sono veloci e tu non gli staresti dietro, loro vivono sotto terra e tu sugli alberi... ti prenderanno in giro”
Dopo un attimo di riflessione Callan guardò la mamma e chiese:
“Perché?”
“Mangia adesso, un giorno capirai” E tutti e due ripresero a rosicchiare le loro foglie favorite.
Se pensate che Callan si fosse convinto delle risposte della madre, vi sbagliate proprio.
Infatti il giorno stesso, nel pomeriggio inoltrato, il bruchino scese dall’albero su cui passava tutti i suoi giorni e si avvicinò al punto in cui passavano le formiche. Restò a guardarle per un po’ e poi d’improvvisò gridò:
“Ciao! Io sono Callan, voi chi siete?”
“Macro, Micro, Folto, Scanso, Mirto, Zacco...” Ogni formica che passava declamava il suo nome e alzava la testa in segno di saluto.
Sentendo che la mamma lo stava chiamando Callan disse a gran voce:
“Devo andare! Domani ritorno! Ciao a tutti!”
La mattina seguente, dopo aver ingoiato mezza foglia in gran fretta, disse alla mamma che aveva ancora sonno e che si sarebbe messo da qualche parte all’ombra a farsi un pisolino.
“Non allontanarti, però” si raccomandò mamma bruco.
Ma appena qualche rametto più in là, sicuro che nessuno l’avrebbe visto, Callan scese al suolo e tornò al punto d’incontro del giorno precedente. Decise di seguire la colonna di formiche. Dopo un po’ di tempo cominciò a piovere proprio mentre stavano attraversando un luogo senza ripari e tutti cominciarono a correre in varie direzioni per non bagnarsi del tutto. Anche Callan cercò di fare i suoi passi più veloce che poté, ma era ancora sotto l’acqua quando tutti i suoi compagni erano già all’asciutto. Si stava bagnando tutto e cominciava ad avere il fiato grosso, quando d’improvviso si sentì sollevare da terra: erano i nuovi amici che lo trasportarono in tutta fretta sotto un grande fungo poco lontano.
Quando smise di piovere le formiche si diressero verso casa e un piccolo drappello di loro accompagnò Callan fin sopra al ramo dove stava sua madre, tremendamente preoccupata.
“Mi hanno salvato dalla pioggia!” disse tutto felice il bruchetto.
“Callan, dove eri finito?” lo rimproverò mamma bruco con voce malferma.
“E’ tutto a posto, guardami mamma, sto bene”
“Grazie!” disse la mamma rivolgendosi al piccolo gruppo di formiche. Queste salutarono con un inchino e raggiunsero i loro compagni.
Nei giorni successivi Callan andò spesso a trovare le amiche formiche, proprio sul monte, senza potervi entrare perché lui era troppo grande per poter passare dal foro di entrata.
Un giorno mentre tornava a casa incontrò una coccinella che divenne subito sua amica, si chiamava Inel. Dopo che ebbero fatto conoscenza, la bellissima Inel chiese a Callan:
“Ti vedo spesso insieme alle formiche: non dovresti stare un po’ di più con quelli come te, con la tua famiglia?”
“No, le formiche mi hanno salvato un giorno, sai?” rispose Callan “e poi sono così allegre, attive, simpatiche! Perché non dovrei stare con loro?”
“Ma i tuoi simili ti conoscono meglio” disse Inel “sanno capire cosa ti serve, ti possono aiutare in caso di bisogno”
“Sì, è vero, ma io mi annoio con loro” si lamentò Callan “stare con tanti come me mi fa sentire triste, sembra che i problemi li abbiamo solo noi: e stai attento qui, e stai attento là, sarebbe meglio che, e devi far così...”
“Ma anche tu saresti utile a loro” disse allegra Inel “potresti invitarli ad essere più gioiosi, più spensierati...”
“Sono utile a loro perché quando torno sono allegro e contento” disse sorridendo Callan “e poi stare insieme a gente diversa da me, come ora sto con te, capisco molte più cose”
“Per esempio?” chiese Inel incuriosita.
“Per esempio... Sono state le formiche a rivelarmi che diventerò una farfalla!”


(questo racconto, illustrato da Paola Viviani (non da me!), è stato utilizzato per il calendario 2012 dell'associazione Sin Fronteras onlus - di cui sono socio - e pochi giorni fa è giunto in Uruguay, come testimonia la foto qui riportata)

Come il sole e la luna



domenica 11 marzo 2012

Essere vivi

“Che cosa vorrà dire essere vivi?” si chiese un bel giorno la Morte “Che sensazioni darà vivere? Mi piacerebbe proprio scoprirlo prima o poi!”
Non è che le ci volle molto per deciderlo, perché appena un secondo dopo averci pensato si impossessò della vita di un uomo che stava spensieratamente passeggiando nel parco della sua città.
Gli ci volle un po’ di tempo per adattarsi al nuovo status di essere vivente...
Gli ci volle...? O le ci volle...?
No, perché il dubbio esiste: la Morte è maschio o è femmina? E’ donna o uomo? Qualcuno ha una risposta?
Intanto, visto che il corpo di cui la Morte quel giorno si servì per saziare la sua curiosità era quello di un uomo, lo considererò maschio.
Be’, non è il caso di lanciare i soliti slogan del tipo “sei un maschilista, adeguati ai tempi che le donne ora sanno farsi intendere!” Stereotipi! Da quando si sventola la parità dei sessi non ci si capisce più nulla! Ma ora non è questo che mi interessa raccontare.
Tornando al nostro... protagonista, egli restò per qualche minuto nascosto dentro il cespuglio dove aveva scagliato senza preavviso il prescelto a divenire involucro corporeo: la realtà supera sempre la fantasia e per quanto si valutino i cosiddetti pro e contro l’esperienza diretta stravolge parametri e convinzioni. Perciò la Morte dovette abituarsi a distinguere forme e colori, a sentire odori gradevoli e sgradevoli, ad ascoltare suoni provenienti da ogni dove, a provare caldo e freddo... e a percepire il riverbero dello spavento provato dal suo ignaro ospite...
Comunque non gli ci volle molto per trovare l’equilibrio necessario, era un allievo desideroso di imparare, sufficientemente aperto per assimilare il significato intrinseco di ogni esperienza nel minor tempo necessario. E questo era un vantaggio, soprattutto perché ancora non c’era un maestro.
Uscito dal suo nascondiglio, si mise a camminare con andamento rilassato, cercando di imitare il passo che aveva osservato qualche attimo prima di intervenire sul suo... strumento di interazione nel reale. Cominciò ad assaporare il calore del sole sul corpo - fin troppo caldo - o la luce pomeridiana su tutto il mondo circostante; poté sentire anche qualcosa di invisibile che sentiva accarezzargli il viso con delicatezza; poi, osservò rapito due bambini intenti a scrutarsi l’un l’altro con l’aria di chi sta osservando la novità assoluta... o era lo sguardo interrogativo di chi aveva già visto quel faccino che ora lo guardava con occhi curiosi?
Già gli stava piacendo tutto, era eccitato, si sentiva felice... Felice?! E che strana sensazione era quella che ora lo stava assalendo?
“Gelati! Freschi gelati al gusto di crema, nocciola, banana, avogadro, fragola, lampone!” Morte si sentì inspiegabilmente attratto da quell’annuncio e si avvicinò incuriosito. Visto che se ne restava lì a guardare senza dir niente, l’uomo vestito di bianco gli chiese: “Che gusti, giovanotto?”
“Prego?” disse Morte come risvegliato da un lungo sonno.
“Lo prendiamo un bel gelato?” propose il gelataio con un sorriso accattivante.
“Oh sì, certo, grazie!” rispose Morte.
Scusate l’interruzione... Morte, scusami, vorresti vedere come si chiamava il tuo prescelto e dirmelo? Sai, non è il caso di farti chiamare col tuo vero nome. Non è proprio un nome qualsiasi, capisci? Guarda un po’ se ha dei documenti.
Sì, allora... si chiamava... Belanger Dionisious.
Oh, ora va meglio. Riprendiamo.
“Oh sì, certo, grazie!” rispose Dionisious.
“Cinquanta centesimi” disse l’omino.
“Come?” chiese nuovamente il redivivo.
“Cinquanta centesimi! Moneta, mio caro! Entiende?” ammiccò l’omino, sfregando velocemente pollice e indice della mano sinistra.
“Oh, certo!” disse Dionisious cercando nelle tasche di giacca e pantaloni “Ecco qua... trenta, quaranta e... cinquanta”
“Ed ecco il suo gelato!” disse il gelataio con un sorriso soddisfatto.
Anche il nostro era soddisfatto, riprese la sua prima passeggiata tra i viventi e cominciò ad assaggiare il suo primo gelato. Non poteva credere alle sue nuove papille gustative! Quel gelato era un nettare mai provato!
Tanto era preso dalla nuova entusiasmante esperienza che Dionisious neanche si accorse di venire travolto e sbattuto a terra da una donna sbucata in piena corsa da un sentiero laterale.
“Mi scusi! S’è fatto male?” chiese la donna appena ripresero entrambe la posizione eretta.
“No, non mi sono fatto niente” rispose Dionisious guardando sconsolato ciò che restava della sua leccornia.
“Margie” disse lei allungando la mano.
“Mo... ehm, Dionisious” fece lui rispondendo al gesto. Rimase come sospeso quando sentì la mano di Margie nella sua, non poté fare a meno di portare il suo sguardo sulla stretta appena provata e indugiare in quel contatto.
“Scusi, sa, quando corro sono in una sorta di trance” disse lei per niente turbata dall’atteggiamento di lui.
“Oh no, non fa nulla” ribatté Dionisious lasciando malvolentieri la presa.
“Bene, allora... ci si vede...” disse imbarazzata Margie.
“Ok, ci si vede”
Dionisious rimase a guardarla mentre si allontanava e nello stesso tempo restò in ascolto di tutte le sensazioni che stava sperimentando in quel momento. Provava piacere, imbarazzo, si sentiva fremere... C’era però un’emozione fra le altre che in qualche modo lo turbava, ma ancora non riusciva a definirla.
Decise di prendersi un altro gelato. Poi, tutto contento di poter riprendere la dolce esperienza interrotta, si diresse verso un assembramento di persone che sembravano divertirsi molto a sentire qualcuno che cantava una canzone molto allegra; si sentì coinvolgere dal ritmo che animava tutti i presenti e si accorse che gli piaceva molto.
D’un tratto qualcuno alle spalle gli prese un braccio e gli puntò qualcosa sulla schiena che gli provocò dolore, sentì un fremito che gli partiva dall’intestino e senza avere tempo di reagire fu trascinato dietro un cespuglio lì vicino.
“Dammi tutto quello che hai” intimò una voce minacciosa “o finisci al creatore!”
Dionisious estrasse il portafogli, si tolse l’orologio, l’anello che aveva a un dito e passò il tutto dietro di sé. Il ladro prese tutto quanto frettolosamente e con uno spintone fece sbattere il malcapitato sul tronco di un albero. Dionisious cadde a terra tramortito.
Appena si riprese, si accorse di provare ancora quell’emozione, quella che appena dieci minuti prima non era riuscito a cogliere del tutto, la stessa di cui aveva sentito gli strascichi quando si era impossessato di quel corpo... Cominciò a sudare.
Quella era paura, quella era la sensazione che più emergeva fra tutte le altre. E oltretutto, quella non era una paura qualsiasi, quella era... paura di morire.

martedì 6 marzo 2012

Bello, alto e profumato

Arturo era un uomo stimato da tutti, molti gli volevano bene, benché lui non capisse bene il perché: conduceva una vita tranquilla, si dava da fare come poteva... Certo è che la sua era una vita un po’ particolare. Perché?! Eh be’, perché Arturo era un uomo alto, bello e sempre profumato e questo significava avere dei privilegi.
La sua altezza, per esempio, lo dotava di un punto d’osservazione... come si può dire?... per l’appunto, privilegiato, perché poter osservare il mondo dall’alto permette di tenere sotto controllo le situazioni in maniera più... oculata. Più volte gli è capitato di sventare un tentativo di ruberia da parte di abili borseggiatori mimetizzati tra la folla brulicante: appena ne vedeva uno (ormai poteva riconoscerli con uno sguardo), Arturo gli si metteva dietro senza destare sospetti, e appena si rendeva conto che il furbone era in procinto di attuare il colpo con il classico scontro apparentemente casuale, allungava una gamba (cosa non difficile per Arturo), intercettava con grande maestria il piede del ladro e quello ruzzolava a terra malamente, finendo oltretutto calpestato a più riprese dai pedoni frettolosi.
Senza ombra di dubbio, poi, Arturo era un uomo veramente, veramente bello! Questo, a parte essere un elemento di attrazione degli sguardi altrui, e non solo di quelli femminili, non costituiva un gran privilegio, visto che di fatto sembrava non trovare la donna della sua vita. Non ne faceva un dramma, intendiamoci; quando ci pensava lo faceva con semplice curiosità, come si può essere curiosi di capire perché il proprio vicino alzi le persiane di notte e le abbassi di giorno. Sono domande a cui è ben difficile rispondere, ma non è che conoscere la risposta sia di vitale importanza. E poi, comunque, lo spirito del cercatore da cui era animato, permetteva ad Arturo di porsi delle domande senza esigere una risposta, almeno non immediata.
Quindi, riassumendo, Arturo era innanzitutto alto e bello.
Ma il pezzo forte del sior Arturo - così lo chiamava la portinaia del palazzo dove abitava - era il suo profumo. Qualcuno penserà che il nostro, amante com’era della distinzione dei singoli e dell’originalità del loro agire, di fronte ad un uguagliarsi progressivo della società, spendesse fior di quattrini per potersi garantire le migliori essenze del creato e provenienti da ogni dove. Niente di tutto questo! Arturo profumava in modo naturale, si potrebbe perfino azzardare l’ipotesi che esistesse un’essenza di Arturo, e non di un Arturo qualsiasi.
La vera questione, però, era che il profumo di Arturo cambiava a seconda delle persone che lo incontravano, benché dire questo non sia precisamente ciò che accadeva. In pratica ogni persona che gli si avvicinava sentiva un profumo diverso: chi di lavanda, chi di mare, chi di pino... E Arturo non riusciva a farsene una ragione, anche perché lui, sì, si sentiva profumato, ma non ha mai saputo definire il proprio profumo. Se dovessi sentire tutti quei profumi, si diceva ogni tanto, penso che sarei morto di emicrania da un bel pezzo! Con tutte le persone che incontrava ogni giorno, poi!
Incontrava effettivamente molte persone e gente di ogni tipo: grandi, piccoli, vecchi, vagabondi... proprio di ogni tipo; e difficilmente chi gli stava di fronte gli risultava sgradevole o antipatico; Arturo pensava, ne era intimamente convinto, che il contatto con qualsiasi persona gli avrebbe rivelato qualcosa in più di se stesso e del senso della sua vita su questa terra.
Chissà... forse era questo che gli altri percepivano di lui, ne rimanevano affascinati senza capire bene il perché. Già... lui poi non ne parlava mai, ma forse era proprio questo ciò che faceva di Arturo un uomo alto, bello e profumato.

domenica 4 marzo 2012

Ieri, oggi o domani?

A. “Avremmo dovuto lavorare al nostro progetto per tre giorni consecutivi e al termine del terzo giorno consegnarlo a chi di dovere”
B. “In che senso ‘avremmo dovuto’?”
A. “Eh! Perché il progetto andava realizzato... da ieri a domani”
C. “Come da ieri a domani?!”
A. “Come...? da ieri a domani!
B. “Ma oggi... siamo già a metà pomeriggio!”
A. “Vorrà dire che lavoreremo giorno e notte!”
C. “Beh, a dire il vero sarà... mezzo giorno scarso, una notte, un giorno e qualche ora serale. Altro che le mille e una notte!”
A. “Vorrà dire che per ricavare il monte-ore necessario, ci divideremo i compiti e invece che lavorare in equipe ognuno provvederà alla parte del progetto che più gli è consona, e poi qualche ora prima della scadenza ci coordineremo allo scopo di unificare il tutto”
B. “Sì, e in base a cosa ci dividiamo il lavoro?”
A. “Appena cominciamo lo vediamo”
C. “C’è un piccolo particolare”
B. “E quale?”
C. “Siamo sicuri che alla fine i singoli lavori saranno stati eseguiti in modo che diano vita ad un progetto unitario?”
A. “Mah! Finché non faremo altro che farci domande sarà oltremodo difficile che riusciamo a scoprirlo”
C. “Va bene, cominciamo. Diamo un’occhiata ai termini di realizzazione: obiettivi, strumenti, metodologia”
A. “...”
C. “Che c’è? Non mi dire che non esistono linee guida?”
A. “No, no, per quello esitono”
B. “E allora? Qual è il problema?”
A. “Le ho dimenticate a casa”
C. “Magnifico!”
B. “Sei un irresponsabile! Mi dici come facciamo adesso?”
A. “Su, è sempre andata bene! Non fasciamoci la testa ancor prima di cominciare”
B. “E secondo te come facciamo a cominciare?”
C. “Dovremmo almeno sapere il tema proposto”
A. “Ah be’, se è per quello non c’è alcun problema”
B. “Come sarebbe a dire non c’è problema?”
A. “Sarebbe a dire che il tema è libero”
B. “...!!”
C. “Allora fino adesso di cosa abbiamo parlato?”
A. “Di obiettivi, linee guida e tutto il resto”
B. “E quindi?”
A. “E quindi i dettagli del bando non me li ricordo, anzi...”
B. “...?”
C. “...?!”
A. “... in effetti non l’ho letto, pensavo sarebbe stato meglio farlo insieme”
C. “Ti sei offerto volontario! A che scopo?”
B. “Non avremmo dovuto fidarci. Sappiamo come è fatto, avremmo dovuto aspettarcelo!”
A. “Sentite: mi spiace, ma ora non c’è più tempo per le disquisizioni sul mio operato; mettiamoci al lavoro, mal che vada andrà meglio la prossima volta”
C. “Se ci sarà una prossima volta!”
A. “In che senso?”
B. “Nel senso che ci giochiamo la fama e se va male, ma credo che su questo non ci siano dubbi, nessuno vorrà più affidarci un progetto, nemmeno il più banale”
A. “Non sarei così catastrofico. Ancora non sappiamo come andrà”
C. “No, ancora non sappiamo quale sarà il nostro progetto!”
A. “Se avete finito di fare gli uccelli del malaugurio, direi che è bene mettersi al lavoro”
B. “D’accordo! Qualche suggerimento per evitare di dar vita a tre idee poco chiare e completamente distinte?”
C. “Che ne dite di un memorizzatore interno a impulso?”
A. “In che senso interno?”
C. “Un affarino elettronico da trapiantare nel cervello, che magari testeremo su di te, visto quel che combini ogni volta che ti assumi un impegno”
A. “Divertente!”
B. “Ah, se è per questo penso sarebbe più utile un memorizzatore che possiamo attivare io e te ogni volta che lui si offre volontario”
C. “Questa è una grande idea!”
A. “Allora, memorizzatore interno a impulso, ok?”
B. “Perché no?”
A. “Tu?”
C. “Perché no?”
A. “Va bene. A me la parte logistica”
B. “Io l’elettronica”
C. “E io il software”
A. “Ok! Appuntamento a tre ore...”
B. “...?!?”
C. “...!?!”
A. “... quattro? D’accordo, cinque ore prima della scadenza”
...
,,,
...
;;;
...
D. “Be’, signori miei. Sembra abbiate fatto un buon lavoro”
A. “Grazie, signora!”
D. “Solo che...”
B. “Solo...”
C. “...che?”
A. “...?!”
D. “C’è un problema di rispetto dei termini”
A. “Non mi dirà che siamo in ritardo?”
D. “No, no, siete in anticipo”
C. “Be’, meglio, siamo stati i primi!”
B. “...!”
D. “Però... la data di scadenza è sì quella di oggi...”
A.B.C. “Ma?”
D. “...del prossimo mese!”

Wendy la formica trendy

“Non mi dirai che vivi ancora in quei cunicoli bui e tetri che la tua tribù ha scavato sotto quella specie di fungo di legno che c’è in mezzo al giardino?” disse Wendy alla vecchia compagna di formicaio Norma.
“Be’ sì! Negli stessi cunicoli di quella che è stata anche la tua tribù, carissima!” rispose l’amica con un pizzico di risentimento “Perché? Tu dove vivi?”
“Ah” sospirò Wendy “io e le altre esploratrici abbiamo trovato un posto veramente splendido: non c’è terra, non c’è sporcizia ed è tuuuutto bianco!”
“Tutto bianco?!” chiese incredula Norma.
“E tutto liscio, smaltato, pulito!” sottolineò Wendy.
“Ma che posto è? Di cibo ce n’è?” incalzò Norma.
“Cibo...?” Wendy ci pensò un attimo “Sì, non ci si può lamentare. Quello che abbonda in alcuni momenti della giornata è...”
“E’?...” chiese Norma allungando il collo verso l’amica.
“... l’acqua!” concluse Wendy con un sibilo.
Norma sgranò i suoi grandi occhi e poi disse preoccupata:
“Acqua? Ma l’acqua è nemica delle formiche! E’ pericolosissima!”
“Ma noo! Che dici amica mia?” disse Wendy sorridendo “Nessun pericolo, anche perché ormai abbiamo capito quando arriva l’acqua”
“E come?” chiese Norma.
“Qualche attimo prima, sentiamo dei colpi che fanno tremare il nostro territorio e poi sentiamo una specie di fischio, come se qualcosa si muovesse a gran velocità”
“Oh che paura!” esclamò Norma portandosi le mani alla bocca.
“Sì, è così!” disse Wendy guardando l’amica negli occhi “Le prime volte eravamo in preda al panico, non capivamo ciò che succedeva. Ma col passare dei giorni ci siamo accorte che era per noi un segnale, come l’avvertimento di un amico; e quindi ora, appena lo sentiamo, via!, ognuna va cercarsi un riparo. E solo quando siamo tutte al sicuro arriva l’acqua!”
Dopo qualche attimo di silenzio Wendy riprese:
“C’è una cosa strana...”
“Strana?” chiese Norma incuriosita.
“Sì... A volte, oltre ai tremori, ci sono delle folate di vento che vorrebbero scaraventarci chissà dove; e qualche volta” continuò Wendy divertita “qualcuna di noi si è fatta davvero un bel volo, finendo molto più in basso del luogo dove viviamo!”
“Come più in basso? Ma dov’è questo posto?” Norma era quasi spaventata.
“Fatte le dovute proporzioni...” disse Wendy “è come se vivessimo sul cappello del vostro fungo, mia cara”
Norma svenne.
“Oh Norma! Norma...” chiamò Wendy amorevole, cercando di svegliare l’amica “Norma... rispondi!”
Poi, vedendo che non si riprendeva, la scosse un po’ e urlò: “NORMA!!”
Norma ebbe un sussulto. “Oh!... Che c’è? Che è successo?”
“Norma! Sei svenuta!” Wendy fece un gran sospiro “Che spavento mi hai fatto prendere!”
“Tu spaventata?” gridò isterica Norma “Io mi spavento!! Vivi in un posto stranissimo, bianco, liscio, con l’acqua, i tremori, il vento e ad un fungo di altezza...”.
“Ma sì!!” commentò Wendy con aria rapita “Non è meraviglioso? Insolito lo so, ma è così trendy!”
Norma non poteva credere alle proprie antenne.
“Tu ti sei bevuta il cervello!” disse all’amica.
“Ma no, non dire così! Il mondo cambia, mia cara” disse Wendy con occhi sognanti “e anche una formica avrà il diritto di adeguarsi ai tempi, di godere di nuovi spazi e delle nuove tecnologie!”
“Sarà!” commentò Norma “Io mi trovo molto bene nei miei cunicoli! E adesso che ci penso è ora che torni a casa, tra poco sono di turno. Ti saluto Wendy”
E senza aspettare la risposta della vecchia compagna se ne andò.
Wendy, da parte sua, non aveva neppure sentito il saluto dell’amica, continuò a pensare estasiata alla fortuna che le era capitata. Mai sarebbe tornata alla vecchia vita, fra terra, cunicoli e quel sistema di vita, molto naturale, certo, ma tanto primitivo. Ormai si sentiva figlia del suo tempo ed essendo tempo di agiatezze, perché non approfittarne?

venerdì 2 marzo 2012

Un criceto nello specchio


Astolfo quella mattina si svegliò di buon ora e come ogni mattina fece i suoi gorgheggi, per iniziare bene la giornata, diceva. Poi come sempre si alzò e andò in bagno, fece i suoi bisogni, come al solito abbondanti - aveva l’abitudine ogni sera di bersi almeno mezzo litro d’acqua prima di coricarsi - , si lavò il viso, per poi asciugarselo con la salvietta. Tutto come al solito, così pareva...
Quando però alzò lo sguardo verso lo specchio per pettinarsi, rimase bloccato con le braccia in aria e quanto meno sbalordito: dopo alcuni secondi non potè trattenere un urlo tale che i gorgheggi del mattino al confronto erano dei semplici bisbiglii.
E tu chi sei?” chiese Astolfo con sgomento alla... cosa che vedeva nello specchio.
Sono Oflotsa! Piacere!” rispose ciò che era al di là del vetro.
Pia... piace... re...” riprese cauto Astolfo. “Ma... sembri...?”
Un criceto, lo so” completò Oflotsa “ma non sembro un criceto, lo sono.”
...” Astolfo non riuscì a pronunciare una sola parola.
Be’?” continuò Oflotsa “Non mi dici niente? E’ un bel po’ che non ci parliamo!”
Astolfo aprì la bocca per dire qualcosa, ma di fatto prese solo aria. E continuò a guardare nello specchio perplesso.
Non ti ricordi più...” disse quasi deluso il criceto “c’era da aspettarselo. Be’, che dire... hai qualcosa da sgranocchiare?”.
Solo allora Astolfo si accorse che Oflotsa aveva le guance rigonfie: “Cos’hanno... le tue guance?”, chiese indicandole titubante e... ancora, a dir poco, perplesso.
Toccandosi le guance con le sue zampette il criceto disse: “Ah, queste? E’ la colazione; sai, ho la digestione lenta.”
Astolfo non capiva più se stava sognando o se stesse impazzendo. Senza dire altro uscì dal bagno per andare a vestirsi.
Ehi, dove vai?” chiese Oflotsa. “Ma che t’è preso? Ti fa questo effetto rivedere gli amici?”. Dopo qualche attimo, non ottenendo la minima risposta da Astolfo, aggiunse: “Ok, io aspetto qui, tanto non ho fretta.” E cominciò a masticare... la sua colazione.
Astolfo era in uno stato catatonico, non riusciva a pensare a niente; vagava per la casa senza sapere esattamente dove stesse andando, né cosa dovesse fare. Ma c’era un pensiero che gli martellava in testa, avrebbe voluto non ascoltarlo, ma c’era! Pensava a quella specie di ratto gigantesco che gli parlava niente meno che dallo specchio!
No, non è possibile’, disse tra sé e si diresse deciso verso il bagno; ‘non posso aver visto quel che ho visto e per giunta averci parlato!’, pensò cercando di convincersi che era stato solo un sogno. Davanti alla porta del bagno si fermò, soffiò forte e poi entrò.
Dallo specchio, Oflotsa, che ancora masticava con cura la sua colazione, disse: “Oh eccoti! Pensavo ti fossi perso.”. Astolfo lo guardò impietrito; benché non si capisse esattamente dove o cosa stesse guardando.
Allora?” chiese il criceto, “Ti ricordi chi sono?”.
A quella domanda Astolfo si riprese e mettendosi le mani sui fianchi disse: “Certo che mi ricordo chi sei: sei un’allucinazione! Non so cosa mi capiti stamattina, ma vedo nello specchio un grosso criceto bianco... che mi parla!”.
Suh!” disse comprensivo Oflotsa “fai uno sforzo, basta che mi guardi meglio”.
Ecco cos’era ciò che lo disturbava, più dell’apparizione in sé: il muso di quel criceto gli sembrava familiare! E dopo qualche istante, un lungo istante di rimuginamento... di rivalutazione... di “dove mai l’avrò visto?”, cominciò a ridere, a ridere a crepapelle.
Ah, ecco! Ti ricordi adesso, eh?” disse compiaciuto Oflotsa.
E Astolfo rise ancora di più, non riusciva a fermarsi, mai aveva riso così tanto nella sua vita. “Non immagini... ah ah ah... che scene che mi passano davanti agli occhi!!”. E avanti con le risate, a più non posso.
A dire di Oflotsa, Astolfo continuò a ridere fino all’ora di pranzo, non andò nemmeno a lavorare, anzi, il pensiero di andare in ufficio e di ridere in faccia al suo direttore senza potersi trattenere, lo faceva sbellicare ancora di più dalle risa.
Quando finalmente si calmò guardò Oflotsa nello specchio: aveva un muso con un’espressione molto buffa, davvero simpatica; e se ne stava lì tranquillo con le sue guanciotte rigonfie e il suo sorrisetto ironico.
Da non credere!” disse Astolfo, più a sé che al criceto. Sta di fatto che da quel giorno continuò a vedere Oflotsa nello specchio. Non si dissero più nulla; ogni tanto Oflotsa si divertiva a prendere in giro Astolfo, imitando i suoi gesti, ma facendoli al contrario, soprattutto quando lo vedeva particolarmente serio e preoccupato. Ed Astolfo, vedendo Oflotsa nello specchio fare i suoi stessi gesti, ma al contrario, si fermava un attimo a guardare l’amico, sorrideva scuotendo la testa e tornava alle sue faccende quotidiane con una nuova leggerezza.